giovedì 8 maggio 2008

La storia siamo NOI!!!


Era da tempo che avevo in mente di pubblicare, mari a puntate, la storia del Movimento Sociale Italiano. Ne ho parlato con alcuni amici e con alcuni componenti della redazione. Bella idea, ma manca il tempo e anche le risorse.

La soluzione, magari innovativa, me l’ha data un intervento, su questo blog, dell’avvocato Lorenzo Catamo nel quale parla della nascita del MSI a Lecce e del ruolo di suo padre. L’intervento mi ha fatto vivere momenti entusiasmanti, ha accresciuto la mia curiosità ed è aumentata in me la voglia di conoscere la storia del mio partito a Lecce.

Ovviamente questo lavoro non posso farlo io, anche per una questione anagrafica, ma posso, tramite questo blog, invitare tutti quelli che sono a conoscenza di aneddoti e fatti che abbiano attinenza con la nascita e la storia del nostro partito. E’ chiaro che l’invito a postare tali interventi è aperto a tutti, in modo particolare a Lorenzo Catamo, a Graziano De Tuglie, a Roberto Tundo e a tutti quelli che con la loro militanza e la loro memoria ci hanno fatto diventare grandi.

Partiamo proprio dall’intervento di Catamo, che ripropongo io come primo post.

Buon lavoro a tutti.  

Giuseppe Stamerra

45 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Martucci,
forse non sono ancora riuscito a spiegarmi e devo approfondire la questione.
Lo sa come nacque il M.S.I. in provincia di Lecce?
Era il gennaio del 1947 e, presso il Teatro Paisiello a Lecce, si teneva un congresso dell'Uomo Qualunque.
Vi partecipava anche un giovane,non ancora ventisettenne,combattente R.S.I. ed epurato di terza categoria per aver tenuto due discorsi presso il Monumento dei Caduti del suo paese,Veglie,per stimolare all'amor di patria i giovani suoi concittadini che partivano in guerra prima di lui.
Quel giovane era mio padre,Antonio Catamo, al quale un camerata più anziano e più informato spiegò che l'Uomo Qualunque non poteva-per alcune tesi che esponeva-essere più il partito di chi si sentiva ancora fascista e che,a Roma, da pochissimo tempo era sorto il partito adatto, che si chiamava Movimento Sociale Italiano.
Allora non esistevano i telefonini e tutto quanto l'armamentario tecnologico dei giorni nostri,ma Antonio Catamo riuscì a mettersi ugualmente in contatto con Roma ed insieme ad altri camerati più anziani si organizzò per fondare a Lecce il M.S.I.
Lui, che andava fiero della sua tessera 1947(la prima del partito),girando in bicicletta per i paesi fondò le sezioni di Veglie,di Leverano,di Carmiano e di Copertino e,per farla breve, visse tutta la sua vita da militante,anche se a lungo dirigente provinciale,fino alla sua morte nel 1996.I giovani gli tributarono il saluto romano,quando ,all'uscita di chiesa,le sue spoglie mortali si avviarono al cimitero.
La sua vita e quella di tutti noi della sua famiglia sono state segnate dal marchio della fiamma tricolore,per la quale tante angherie e soprusi abbiamo dovuto sopportare.Le soddisfazioni poche e,quasi tutte,effimere.
Mio padre accettò "obtorto collo" la trasformazione di Fiuggi,ma sulla soglia della sua fine terrena mi fece finalmente comprendere appieno quanto fosse profonda la sua convinzione ideale e pianse...
pianse di commozione quando,appena due giorni prima della sua morte,Violante ebbe a pronunciare quelle famose parole secondo cui bisognava comprendere le ragioni dei giovani che scelsero la via della R.S.I.
Dopo,ho lottato strenuamente per tenere la barra a destra e,poichè per me i simboli sono importanti se sono anche sostanza, mi ero ripromesso di andarmene quando AN avesse spento definitivamente la fiamma.Perchè questo avrebbe significato la scomparsa della Destra Sociale,ultimo residuo delle ragioni per cui il M.S.I.(movimento sociale,appunto,e non liberale e non conservatore) era sorto.
Del resto,caro Martucci,lei,che è buon cattolico come me,toglierebbeil simbolo della croce dal Cristianesimo?
Mi scusi per il paragone forse irriverente, ma si tratta di un simbolo che si è fatto sostanza e non è rimasto mera forma!
Ora che Fini ha fatto sparire non solo il simbolo,ma anche il partito,mi son sentito libero di andarmene.Senza alcun rancore nei confronti di chi ha deciso di fare una scelta diversa.
In ultimo,le formulo la mia solidarietà per gli attacchi anonimi che ho da poco letto,formulati nei suoi confronti anche sotto forma di anacronistici campanilismi da parte di chi crede di militare in un partito della Nazione,ma anche da questo dimostra di non averlo compreso.
Cordialmente
Lorenzo Catamo

07 maggio, 2008 12:21

Anonimo ha detto...

Bella questa idea. Chissà se funzionerà, cioè voglio dire se ci sarà qualcuno che darà un contributo, con i propri interventi, al fine di conoscere meglio la storia del nostro partito.
E' interessante, mi piacerebbe conoscere, per esempio, chi è stato il primo Federale, dove si trovava la prima sede provinciale, il primo deputato eletto, ecc. ecc. Oppure iniziative che durano da decenni, come La Contea, di Roberto Tundo. Come è nata, chi scriveva, di cosa si parlava nel numero 1.
Aspetto risposte.....
Ciao, Valentina.

Anonimo ha detto...

Scusate....qual'è il Vostro partito?! La fu AN? Quella che ormai fa a pieno titolo parte del PDL? Dove un esponente di tutto rispetto è un comunista, Bondi....un comunista fa prate del Vostro stesso partito! PDL che al Governo ha messo Ministri che non si riconoscono nel tricolore e ribadiscono: la mia unica bandiera è quella della PADANIA ed è bianca e verde!
Avevo postato un post tempo fa chiedendo con che coraggio chi dice di essere di destra e avere valori di destra a stare col PDL! Per comodità? Perchè adesso siete al potere e va bene così? Perchè pensate di poter contare qualcosa adesso e nel futuro? Come fate a pèarlare di Voastra storia, dell'MSI, delle Vostre radici...ma quali radici? Non ne avete più! Siete ormai un partito nato dall'accozzaglia di un po' di tutto che è riuscito ancora una volta a illudere gli italiani e ottenere il loro voto!!!
Io mi auguro, solo per il bene del mio adorato Paese, che questo governo lavori onestamente solo negli interessi del popolo lavoratore!
Via LA DESTRA!
Roberta77

Anonimo ha detto...

Viva LA DESTRA, scusate!
Roberta77

Anonimo ha detto...

Cara Roberta77,
non è molto simpatico discorrere di radici inesistenti con chi non adopera il proprio cognome, che è un segno delle radici della piccola comunità locale chiamata famiglia.
A parte ciò, non capisco lo scandalo di chi sinceramente da sinistra si sia diretto, prima della vittoria, verso destra.
Vorrei sommessamente ricordarti che questo tragitto lo realizzò pure un certo cavaliere Benito, che dl Partito Socialista a sinistra passò a fondare un movimento (Fasci di combattimento) classificato in seguito come movimento di destra -anche se a tutti gli effetti era al di là della destra e della sinistra.
La storia della Nazione contiene le radici di tutte le formazioni politiche attuali. Tutte, infatti, sono figlie dirette o indiriette di quei travagli del novecento.
A presto
Francesco Martucci

Anonimo ha detto...

APPELLO ALL'AVV. CATAMO

Caro CATAMO,
su un altro sito ho letto un tuo intervento con ampi stralci di dichiarazioni finiane rese a Bocchino in lontani anni missini.
Se ne deduce che oltre a molti libri in biblioteca conservi pure riviste e periodici di area nostra.
A tale riguardo volevo chiederti se eri in possesso dei numeri di intervento (quando era diretto da Marcello Veneziani) e se tra le tue letture figurava il piccolo saggio "RICOMINCIARE DA DESTRA" di Aldo Pecorella del 2005.
Penso che siano utili ad avviare una riflessione ed una ricostruzione sugli avvenimenti alle nostre comuni origini.
Grazie
Francesco Martucci

Anonimo ha detto...

Martucci,
le tue origini, le tue radici sono comuni solo ai ..... carciofi.

Anonimo ha detto...

bravo Giuseppe, hai avuto una bellissima idea. Questa iniziativa può servire a coloro che vorrebbero avvicinarsi ad una corrente politica,ma che per ignoranza della stessa non saprebbe su che basi farlo.Sono appena venuta a conoscenza di questa iniziativa e, per quanto mi riguarda, la seguirò con Molta attenzione. Una che non molla!PC.

Anonimo ha detto...

e' inutile tenere aperto questo blog.
ormai la destra sociale salentina è solo MANTOVANO!

Anonimo ha detto...

Quando uccidere i fascisti non era reato

Umberto Croppi su “Il Riformista” del 18 febbraio 2005

Rimembranze. Fui tra i primi a promuovere il dialogo, ma... sono quello che stava con Mantakas quando uccidere i fascisti non era reato. Altro che opposti estremismi: dopo il ’72 era stato deciso di far fuori il MSI dalla vita politica.

Caro direttore, il mio nome è spesso associato (nella rete, sui testi) a quello di Mikis Mantakas, lo studente greco ucciso durante il processo per il rogo di Primavalle. Quella mattina lo portai io all'appuntamento con il suo assassino e io stesso, poche ore prima, fui oggetto di alcuni colpi andati a vuoto, nei pressi del tribunale di Roma. Ero a quei tempi dirigente del FUAN e del Fronte della Gioventù, divenni in quell'anno membro del consiglio di facoltà di giurisprudenza e consigliere comunale. Ho poi seguito un cursus honorum che mi ha portato fino ai vertici del MSI, da cui sono uscito nel '91 seguendo altri percorsi politici. Ho abbandonato ogni impegno diretto in politica una decina di anni fa.

All'epoca ho vissuto nell'epicentro dell'uragano che scosse l'Italia. I Mattei li ospitammo, dopo la tragedia, nel paese in cui abitavo, dove rimasero per anni, quasi clandestini, perseguitati dal terrore. Ho frequentato molti dei protagonisti e delle vittime di quegli anni violenti, ho fatto il glob-trotter per l'Italia, ho sentito sul collo il fiato della persecuzione dell'isolamento, sono stato pestato a sangue il giorno delle prime elezioni universitarie solo perché, matricola, ero andato a votare.

Sono stato tra i primi a cercare il dialogo con i nostri supposti avversari, già alla fine degli anni '70, promotore con altri di iniziative (come gli ormai famosi Campi Hobbit) che servirono a svelenire il clima, dei primi tentativi di dialogo (il dibattito Tarchi-Cacciari) che sollevarono ondate di polemica, perché ancora nel 1982 con «i fascisti» non si doveva nemmeno parlare. Insieme a Beppe Niccolai e Giano Accame sottoscrissi il primo comunicato di solidarietà per Adriano Sofri, all'indomani della sua incriminazione. Mi sono sempre adoperato (per quel che mi è concesso) per la chiusura definitiva di quella stagione e per la soluzione politica di un fenomeno che fu vasto, se non, addirittura generalizzato.

Oggi sono amico di molti di quelli che trenta anni fa mi volevano morto. Se ne parla liberamente, non si fa la conta a chi era più buono o più cattivo, chi c'era e ha l'onestà di ricordare senza mediazioni propagandistiche sa bene cosa è successo. Eppure non riesco a ritrovarmi nella rappresentazione che sta emergendo dal dibattito scaturito a partire dalle novità legate alla strage di Primavalle, che tende costantemente a riprodurre lo schema allora imposto: gli opposti estremismi.
Sembra infatti, dalle dichiarazioni e le analisi di questi giorni, che ci fossero due bande di facinorosi che si facevano la guerra, con magari qualche complicità di ambienti politici e intellettuali ad essi contigui, e un'Italia moderata che stava a guardare sbigottita. Non andò così. Tutto iniziò quando, a cavallo delle elezioni del '72, la DC cominciò a temere una possibile concorrenza a destra da parte del MSI.
Fu dal maggior partito di governo che partì l'anatema: con la formula dell'«arco costituzionale» (De Mita) si intese escludere, dopo quasi trent'anni di pacifica convivenza, un partito dalla vita politica e la comunità umana che ad esso faceva riferimento dalla vita civile. Seguirono, a stretto giro, le direttive tipo «coi fascisti non si parla» (Berlinguer) che furono raccolte e applicate da tutti (tutti!) a tutti i livelli, dalle assemblee scolastiche ai consessi elettorali ai dibattiti televisivi. Poi la campagna di raccolta firme per lo scioglimento dell'MSI, fatta dal PCI non dai gruppi extraparlamentari. Il passo successivo fu semplice, «uccidere i fascisti non è reato», «il sangue fascista fa bene alla vista», «se vedi un punto nero spara a vista …» eccetera. E mentre gli apparati politico-mediatico-giudiziari provvedevano al sostegno delle difese e delle posizioni innocentiste, sui muri fiorivano i «10-100-1000 Primavalle», «i covi dei fascisti si chiudono col fuoco».

Non voglio nemmeno più ripetere quello che infinite volte ci siamo detti: la violenza c'era, c'è stato anche a destra chi ne ha coltivato il culto, ci sono stati episodi di ferocia e di criminalità. Ma questo non basta a dar conto del fenomeno che storicamente si è determinato tra il '73 e il '77 (quello che è successo dopo ne è un derivato). L'intera società politica italiana aveva decretato l'espulsione di una sola parte dal suo contesto. Gli omicidi erano solo un corollario legittimo di quel decreto. La presunzione di incolpevolezza, lo stupore di chi si vedeva processato per aver commesso un atto «di giustizia» erano paradossalmente sinceri. Mantakas fu giustiziato con un colpo di revolver alla testa, non durante uno «scontro», ma perché ai missini non doveva nemmeno essere concesso di assistere al processo agli autori del rogo di Primavalle.

Non si trattava di conflitti, Mazzola e Giralucci furono le prime vittime delle BR, uccisi a sangue freddo nella federazione del MSI di Padova, Ramelli e Pedenovi a Milano furono uccisi in agguati sotto casa, Zicchieri fuori una sezione del MSI al Prenestino. E qui interrompo il lungo necrologio.

A me non è venuto mai nemmeno in mente, nemmeno per vendetta, di uccidere un mio avversario, ma arrivo a capire cosa può essere successo nella testa di un mio coetaneo che voleva uccidere me. Era il contesto che lo legittimava. Lo motivava, in un certo senso lo armava. Sono i miei amici di ora che mi confermano di aver provveduto alla compilazione degli schedari in cui finivano le informazioni sui miei spostamenti, le mie foto "segnaletiche", a nessuno di noi è mai venuto in mente di schedare, di seguire un nostro avversario. Ma posso capire le emozioni derivate che spingevano un ventenne a considerarsi parte di un esercito che si sentiva alla vigilia della propria rivoluzione di ottobre. A creare l'acqua in cui quei rivoluzionari credevano di muoversi come pesci (in realtà era un acquario ben sorvegliato da chi li -ci- lasciava fare per utilizzarci tutti al momento giusto) non erano tanto i capetti invasati. Nemmeno gli intellettuali blasonati che li accoglievano nei loro salotti. Erano i moderati che non si limitavano a tollerarne le gesta ma li incoraggiavano, gli fornivano l'alibi morale ancor prima che politico. Io entrai nel consiglio di facoltà ancora matricola e con ancora un occhio bendato e le costole fasciate, scortato da 100 poliziotti, e dovetti subire l'ordine del giorno, con cui si chiedeva la mia espulsione dal consesso in cui ero stato eletto in quanto (cito testualmente) «complice degli stupratori del Circeo».
Il documento era firmato e illustrato da un'illustre professore comunista (oggi uno dei più stimati e pacati intellettuali italiani: Stefano Rodotà) ma veniva votato dai cattolici, dai moderati: ci fu una sola astensione, quella del professor Ferri, nemmeno un voto contrario. Il giorno dell'omicidio Calabresi andai col mio parroco a far visita ad un contadino democristiano, insieme a suo figlio, delegato giovanile della DC: stavano festeggiando. Quando a Milano venne ucciso il consigliere provinciale del MSI Enrico Pedenovi, il mio sindaco (sindaco di un monocolore democristiano) fece stampare un manifesto di condanna, poi ne comprese l'«inattualità» ed evitò di affiggerlo.

Quando furono istituiti a Milano i primi consigli di quartiere, i ragazzi del MSI che furono chiamati a prendervi parte dovettero affrontare un vero e proprio sistematico massacro, con prognosi anche di 90 giorni e non ci fu un solo Consiglio in cui non fu chiesta, con ordine del giorno, la loro espulsione. Io per quindici anni ho fatto il consigliere comunale senza, una sola volta poter instaurare un dialogo, senza far parte di una commissione, senza neanche fare lo scrutatore. Ho dovuto abbandonare l'Università di Roma perché, come a molti altri, mi era semplicemente impedito di varcarne i cancelli. A un povero cristo, colpevole solo di assomigliarmi, aprirono la faccia dalla bocca fino all'orecchio.

Ancora nell'82, quando Cacciari decise scandalosamente di parlare con un intellettuale che era stato di destra, Marco Tarchi, ci fu una corale levata di scudi dell'intellighenzia italiana, rileggetevi la rassegna stampa dell'epoca, il filosofo veneziano fu ricoperto di improperi soprattutto dai suoi amici, in prima fila quelli che oggi stanno in Forza Italia. Con i fascisti non si parla! Punto e basta.

Insomma è ora di chiuderla definitivamente quella stagione e non serve nemmeno andare a ricercare le responsabilità individuali, siamo tutti altre persone rispetto ad allora, e alcuni di noi l'outing l'hanno fatto completo, senza riserve e in tempi non sospetti. Se si vuole, però, ricostruire il quadro storico degli eventi bisogna farlo secondo verità: in quell'inizio degli anni '70 non ci fu guerra per bande, non ci furono opposti estremismi, ci fu il tentativo dichiarato, argomentato e praticato di cancellare dalla faccia della terra una comunità politica.

Sette-otto anni fa viaggiai in treno da Firenze con Adriano Sofri, andavamo entrambi a Roma ad assistere ad un dibattito sugli anni di piombo in una libreria. Il pubblico era costituito prevalentemente da giovanissimi autonomi. Adriano era già andato via quando uno di quei ragazzi affermò: «Ramelli era uno che di professione faceva il picchiatore fascista e quindi è giusto che abbia fatto la fine che ha fatto». Tra i presenti fu soltanto Giampiero Mughini a reagire e fu costretto ad andarsene sotto le ingiurie dei giovanotti. Gli altri relatori tentarono una benevola conciliazione. Forse una onesta ricostruzione di quanto successe aiuterebbe anche non far rinascere tossine, di sinistra o di destra, poco importa.

Umberto Croppi

Anonimo ha detto...

"RICOMINCIARE DA DESTRA.
IL CASO BARI ED ALTRE STORIE"

il "libello" di Aldo Pecorella nella recensione di Tommaso Francavilla (11/11/05)

In una pubblicistica locale nella quale si contrabbanda per evento epocale tutto quel che è “politicamente corretto”, un libello contro-corrente come quello di Aldo Pecorella (“Ricominciare da Destra: il caso Bari ed altre storie” edito da “L’ Arco e la Corte”) obiettivamente mancava. E’ il racconto vissuto dall’interno, sul filo della nostalgia ma anche al riparo della retorica, di vent’anni di MSI prima e di An poi, e cioè di una famiglia politica passata dall’orgoglio di una mera testimonianza ideale alla guida della Città e della Regione. Scorrono nel libro i nomi e le storie di una comunità generosa, non priva di ambizioni e di fecondi fermenti culturali, che pagando con coraggio quotidiano il prezzo della discriminazione maturava faticosamente ma limpidamente un pensiero di libertà. La storia di una mutazione genetica che Pecorella, rivendicando orgogliosamente la sua coerenza, nega, ma che in realtà riconosce quando conclude inneggiando al valore delle differenze ed al primato della libertà un racconto che aveva cominciato ricordando il suo fascismo “puro e duro”, quello totalizzante dell’esordio rivoluzionario e del cupo epilogo.
Incombe su tutto il libro la grande ombra della geniale levatrice di questa mutazione genetica, di quel Pinuccio Tatarella al quale Pecorella rinnova il suo giuramento di amicale fedeltà, ma rimprovera anche di avere adottato una strategia vincente nell’immediato quanto di corto respiro, soprattutto perché non avrebbe saputo né voluto ricercare per il suo mondo d’origine una nuova egemonia culturale.
Un’accusa ingenerosa, in verità. La Destra di Tatarella era vincente proprio perché aveva saputo contaminarsi con culture e storie politiche molto lontane dalle sue radici, armonizzandole all’interno di una strategia bipolare nella quale soltanto la pur gloriosa via Piccinni poteva diventare il cuore pulsante della Città. Tanto questo è vero che il grande retaggio di Pinuccio si è disperso quando i suoi diretti eredi hanno smesso di essere il punto di forza e di aggregazione del centro-destra per divenirne un fattore di debolezza e di disgregazione, in un rivendicazionismo ossessivo e petulante all’insegna della recriminazione e della rottura sistematica che è stato causa determinante –anche se scomparsa, sia pure per apprezzabile amor di Partito, nella ricostruzione di Pecorella- delle sconfitte del 2004 e del 2005. In occasione delle quali vi fu anche chi, di quel mondo più vecchio che antico che Pecorella ricorda con umanissimo affetto, votò dall’altra parte, risucchiato da una sorta di irresistibile richiamo della foresta. Di qui le ragioni di un’altra Destra, non incompatibile ma distinta da quella descritta nel libro, nel cui percorso la libertà non sia un faticoso quanto sincero approdo ma la perenne stella polare, l’alfa e l’omega, e che proprio per questo è radicalmente incompatibile con ogni tentazione peronista alla Emiliano o con ogni forma di antiliberalismo viscerale alla Vendola. Ma questa Destra del futuro attende ancora, scomparso Pinuccio, di essere riconosciuta. Non ne troverete traccia, per esempio, nel pur prezioso e meritorio libello del mio Amico Aldo, che ringrazio comunque per questo bel lavoro.

Tommaso Francavilla

Anonimo ha detto...

Dal settimanale Foggia e Foggia n.183 (di Simone Di Mauro)


´BISOGNA DARE LA PRECEDENZA A DESTRA´

PECORELLA: 'Abbattere la sinistra del nulla e tornare a vincere´, Lambresa: 'Nel nostro partito tutti valgono, non solo gli eletti´

'Questo libro nasce da un bisogno di verità´. Con queste parole scritte nell´introduzione del suo libro, ´Ricominciare da destra´, Aldo Pecorella, componente dell´assemblea nazionale di An, riassume la principale motivazione della stesura dell´opera.

Una storia della destra pugliese, con tanti amarcord e piccoli aneddoti che hanno fatto crescere una generazione. Per ´ricominciare da destra´ i circoli di An ´Tony Augello´ e di Azione giovani ´Mario Zicchieri´ hanno organizzato giovedí 27 ottobre nella Sala Rosa del Palazzetto dell´Arte la presentazione del libro di Pecorella. Presenti alla manifestazione Francesco Martucci, presidente del circolo 'Tony Augello´, Antonio Chieffo, presidente dei Circoli di An in Capitanata, e Lucia Lambresa, oltre ai giovani e meno giovani militanti che sono intervenuti per dire la propria idea su come ricominciare.

'Dobbiamo superare i limiti del partito, della coalizione e unirci per tornare a vincere in futuro, recuperando, grazie a lavori come questi di Aldo Pecorella, gli spaventosi gap culturali del centrodestra´ sbotta Martucci invitando all'unione e alla partecipazione di tutti per An.

'Il nostro é sempre stato il partito della gente. Ho voluto il comitato di quartiere per aiutarci e aiutare, perchè in fondo la politica consta di piccoli gesti per la gente´ ha ricordato il giovane Salvatore de Martino.

La parola é poi passata a Lucia Lambresa la quale ha scosso i presenti e riscosso applausi e consensi 'Non é negativo ricordare il passato, senza di quello parleremmo senz´anima. Alleanza Nazionale é la fusione di momenti importanti vecchi e nuovi, e tutti i partecipanti della vita del partito sono uguali. Tutti valgono non solo gli eletti´ ha affermato la Lambresa.

'Ho voluto raccontare la mia ed altre storie per riscoprire l´orgoglio di un mondo e di una gioventú barese nella quale sono cresciuto´ ha spiegato PECORELLA 'ma soprattutto per ricominciare da destra e abbattere la sinistra del nulla´.

Anonimo ha detto...

Trasmetto questo articolo di ISABELLA RAUTI con due finalità:

Far capire chi sono i giganti della Storia del MSI
Spronare Roberto TUNDO a raccontarci del suo rapporto di amicizia e di cameratismo con Pino Rauti, visto che ne era il principale esponente nel Salento, fino a quando Rauti sciolse la corrente e Tundo, come la maggior parte dei rautiani doc passò con Alemanno (quando questi non era ministro e non poteva esercitare il fascino "materiale" che tanto interesse fotografico ha suscitato in qualche "disinteressato" locale).
La storia è appena agli inizi!
Francesco Martucci

PINO RAUTI DOLCE MEDIATORE IN FAMIGLIA,
IN POLITICA ASPRO E INTRANSIGENTE

(di Isabella Rauti*)

La sua immagine pubblica? Molto diversa da quella privata di padre:
perché, talvolta, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare

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Isabella Rauti *

Il ticchettio dei tasti della vecchia Olivetti risuona in tutta la casa e sono solo le cinque del mattino.

Se chiudo gli occhi, è questa la prima immagine che ricordo di mio padre, Pino Rauti. Avrò avuto cinque anni e lui, all’epoca giornalista de “Il Tempo”, si occupava delle cronache della Provincia. Spesso, per farsi perdonare le prolungate assenze, mi portava una bambola caratteristica di una regione o di un paese straniero che aveva visitato. Finii per averne una collezione. E poi ricordo ancora i giorni spensierati delle vacanze: quelli al mare, trascorsi a Cattolica, dove papà ci raggiungeva, di tanto in tanto, specie nel fine settimana, e quelli in montagna, a Glorenza, luogo che ci ha visti protagonisti di interminabili passeggiate. Io approfittavo di quei momenti per stargli vicino, sempre vicino, tanto che, alla fine, lui mi attribuì il soprannome di “francobollo”, perché gli stavo, letteralmente appiccicata.

I viaggi nei ricordi non sono sempre facili, perché, insieme alla nostalgia, che sembra rendere tutto più dolce e sopportabile, fanno riaffiorare anche la memoria di eventi che ci hanno procurato piccole e grandi ferite: così, in qualche modo, il ricordo riapre quelle ferite, che, forse, non si sono mai rimarginate.

E, a volte, mi chiedo, come potrebbero. Proprio in questi giorni al mio ottantenne papà è stata comunicata la richiesta di rinvio a giudizio per la strage di Brescia, 1974. Sono passati “solo” trentaquattro anni. E pur considerando la totale fiducia che mio padre ha sempre nutrito nei confronti delle istituzioni, non posso non pensare ad un preciso intento persecutorio che si muove dietro queste accuse, prive di elementi probanti.

“Non c’è mai una penna vicina al telefono”, “ma dove vai con quel trabiccolo?”, “non ti sciupare”, “perché non ti compri un capino elegante?”. Queste erano le frasi che, con mia madre e mia sorella Alessandra, gli sentivamo dire più spesso. Nascondono, ancora oggi, un misto di tenerezza ed apprensione per tutte noi e, di sicuro, anche l’estrema cura che aveva per l’ordine: la mancanza di una penna vicina al telefono era, davvero, motivo di vivaci discussioni. Ma un uomo solo, contro tre donne, poteva poco. Era sommerso dall’universo femminile. Subiva le liti tra me e mia sorella, le discussioni tra noi figlie e mia madre. E lui, tutte le volte, provava a mediare, a ricucire, a risolvere piccoli e grandi conflitti. Ecco, a distanza di anni, nonostante la mia famiglia avesse certamente una gestione matriarcale, riconosco a mio padre la capacità di essere stato un grande mediatore familiare.

Aveva autorevolezza, ma non esercitava l’autorità maschile, tipica di quei tempi. Credo che ad essere “atipica”, comunque, fosse la mia famiglia nel suo complesso. La politica militante è stata, infatti, per noi, un tratto tipico, una sorta di collante. I miei genitori si erano conosciuti nella federazione romana del Movimento sociale italiano. Mia madre, all’epoca, era fiduciaria di istituto per il Partito e mio padre un esponente nazionale giovanile. Tutte le loro scelte successive, sia di vita privata sia professionali, sono state influenzate da questo credo profondo. Anche lo stare a casa di mia madre è da intendersi come una scelta di “militanza”: perché mio padre potesse svolgere al meglio la sua attività politica era necessario che la gestione familiare fosse nelle sue mani. Questo non le impediva, tra l’altro, di partecipare attivamente a tutte le attività di partito e di fare la militante come si definisce tutt’ora.

Avevo nove anni quando entrai per la prima volta alla sezione Balduina del Movimento sociale. Mi ci portò mia sorella Alessandra che allora aveva quattordici anni. L’unica cosa che potevo fare, a quell’età erano, le pulizie della Sezione ed arrotolare i manifesti. Ma da allora in poi è stato un impegno ininterrotto ed ovviamente crescente. E mio padre, che ci ha sempre lasciate libere di fare le nostre scelte, ha avuto, da allora, come principale preoccupazione quella della mia formazione politica e culturale. Ancora oggi mi ritaglia articoli di giornale o mi segnala convegni che ritiene possano essermi utili. Un po’ come, quando ero piccola, e la sera mi sedeva accanto e mi raccontava i suoi “fatterelli”: erano storie della guerra e degli anni immediatamente successivi, in cui i tratti storici si intrecciavano a quelli della fantasia. Un giorno, tornando a casa dopo scuola, felice perché, insperatamente, avevo avuto un buon voto al compito di matematica, trovai delle persone che non conoscevo e che, mi disse mia madre, avrebbero portato via papà. Alla mia richiesta di spiegazioni, rispose con educazione uno di quegli uomini, che mi rassicurò dicendomi che papà sarebbe tornato presto. Erano agenti in borghese, venuti per arrestare mio padre; la detenzione durò poco tempo, ma per essere completamento prosciolto dovemmo aspettare molti anni!

E fu così che, qualche giorno dopo, quando la maestra, per un compito in classe, ci chiese di descrivere un evento particolare, io raccontai dell’arresto di mio padre. Di come la casa, da quel giorno si fosse riempita di piccoli animali che fino a quel momento i miei genitori ci avevano impedito di avere, del motorino che mia sorella avrebbe comprato, e di mia madre che ci tranquillizzava, quotidianamente, sul fatto che il papà era innocente e che dovevamo avere fiducia. Conclusi il compito scrivendo che, nonostante tutto quello che era accaduto, se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio cognome, avrei risposto sempre più fieramente “Rauti”. Quel tema venne pubblicato, nel 1972, sul “Secolo d’Italia”, con richiamo in prima pagina. Ricordo il mio rammarico per la cornicetta da me disegnata attorno al titolo del compito e che non era per niente carina.

Come dicevo, il ricordo può addolcire certi eventi, ma di certo non cancella il dolore al quale con grande dignità la mia famiglia ha sempre reagito. Le scritte infamanti, che c’erano sempre state, cominciarono ad invadere ogni spazio della nostra vita, dal portone al pianerottolo di casa, ai muri della scuola. Per non dire dei problemi avuti con gli scout, con i genitori di alcune mie amiche, dei freni tagliati al motorino di mia sorella. Episodi che, invece di indebolire hanno rafforzato la mia famiglia, per merito, ne sono convinta, anche di mia madre che, negli anni, è stata nostro riferimento costante.

A partire dalle scuole medie, fui iscritta ad una scuola privata perché la pubblica, allora, con il mio cognome, poteva essere troppo pericolosa. Il tempo della politica sarebbe arrivato dopo. A tredici anni e mezzo, mi iscrissi al Fronte della gioventù. Mio padre, come genitore, era preoccupato per quella mia scelta, ma come politico certamente non poteva impedirmela. La sua unica raccomandazione era di non rinunciare agli impegni ed intrattenimenti tipici dei ragazzi della mia età. Cercai di seguire il suo consiglio. Ma la politica continuava ad esercitare il suo fascino preferenziale.

Qualche aneddoto familiare e politico? Accompagnavo spessissimo mio padre in giri di Partito; andammo ad un convegno a Civitavecchia (erano i primi anni ’80),e mi ero vestita, completamente, di rosa. Inaspettatamente, mio padre mi chiese se mi ero vestita così per il “bel Tony”, un dirigente di allora. Fui colta totalmente di sorpresa da quella domanda che fu rivelatoria, e dovetti riconoscere che aveva ragione. Mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa. La storia con il “bel Tony” cominciò qualche tempo dopo e lui lo venne a sapere da un “pettegolezzo”. In un incontro di partito, papà lo avvicinò dicendogli, più o meno “So che mia figlia ti guarda; ma sappi, è troppo piccola per te, ha un brutto carattere, è polemica, discute su tutto è impegnativa”. Penso che lo abbia scoraggiato.

Quando si trattò del fidanzamento con Gianni (che poi è diventato mio marito), mi impegnai molto a tenere la cosa segreta. Ma come era inevitabile che fosse, lui venne a saperlo. Del resto, la figlia di Rauti fidanzata con giovane dirigente di spicco, forniva materiale per più di una chiacchiera. Mio padre mi disse che avrebbe preferito saperlo da me, “non per avere la mia approvazione, ma per stare tranquilla con la tua coscienza”. Aggiunse anche che quell’unione poteva essere “perfetta e micidiale”, perché lui non aveva mai conosciuto due persone più pignole e cocciute di noi. Oggi, a distanza di tanti anni, posso affermare che quella frase è stata profetica.

Era il 1995, quando a Fiuggi si celebrava l’ultimo congresso del Movimento Sociale e si apriva il primo di Alleanza Nazionale. Mio padre, come tutti sanno, andò via, con altri, da Fiuggi, per fondare in seguito la Fiamma Tricolore. Quando io decisi di seguirlo, mi raccomandò di scegliere liberamente, di non sentirmi obbligata nei suoi confronti. Mi fece una raccomandazione molto paterna: “Io e tua madre siamo stati sempre insieme”. Laddove quel “sempre” stava ad indicare anche i periodi più bui, quando, forse, per mia madre sarebbe stato più semplice tirare i remi in barca. “Metti la famiglia al primo posto”, continuava a dirmi, ma, ciononostante, non ha mai commentato le mie scelte, né allora né oggi, non ha mai espresso giudizi sulle scelte politiche di mio marito, pur non condividendole, né fatto commenti. Di tutto questo, oggi gliene sono profondamente grata.

Gratitudine che nutro, in particolare, per l’aiuto avuto durante i primi anni di vita di mio figlio, quando approfittando delle sue abitudini mattiniere, affidavo al nonno il piccolo e mi concedevo qualche ora di sonno. Oggi, seppure in modi differenti, nonno e nipote si adorano e vivono una grande complicità, grazie soprattutto al primo che concede al secondo cose impensabili per noi figlie, da piccole. Un esempio per tutti: gli consentiva di sedersi sulla sua scrivania, spostando le carte che c’erano sopra. Conoscendo la sua ossessione per l’ordine, direi che questa è una delle più grandi concessioni che abbia fatto a mio figlio.

In politica sono sempre stata al suo fianco dagli anni Settanta ai primi anni del 2000: questo non significa che con mio padre non ci siano mai state discussioni, anzi. Le nostre querelle erano all’ordine del giorno, in merito all’organizzazione, alla scelta dei collaboratori, alla modalità di affrontare certi problemi e, ovviamente, di risolverli. La differenza generazionale si traduceva, per forza, in una differenza di linguaggi e di visioni, ma non di sentire. Quello ci ha sempre accomunato e ci accomuna ancora.

Anche sul piano professionale ho avuto la fortuna di agire sempre in assoluta libertà. Anche se, talvolta, devo confessarlo, avrei voluto che lui mi avesse preparato, in qualche modo, al mondo del lavoro. Invece non ha mai insegnato a me o a mia sorella “come” si può fare carriera o come si sgomita. Ha sempre creduto in una società meritocratica. “Fai quello che ti piace, quello in cui credi ed il tuo lavoro verrà riconosciuto” erano le sue uniche raccomandazioni.

Di certo, non posso dire che il mio cognome non mi abbia condizionato. Prima del mio arrivo spesso la gente ha già un’idea di me, senza avermi mai vista o conosciuta. Sono come preceduta dal pre-giudizio. E questo, di sicuro, non mi ha mai agevolato. E proprio in virtù di ciò, mio padre mi ha sempre spronato a fare bene, a fare meglio, e se possibile, a lavorare fino all’eccesso.

Una volta con estrema lucidità mi disse “Non capisco perchè una come te non abbia fatto il concorso in magistratura” – “Perché sono laureata in lettere”, risposi. Questo per dire quanto fosse profonda la cifra della sua discrezione nei nostri confronti: nessun condizionamento di sistema. Una cosa alla quale teneva profondamente e che ripeteva spesso era che se avessi deciso di fare politica, non avrei dovuto fare della politica un lavoro. Lui stesso, era stato avvocato prima e giornalista poi.

Dunque dovevo trovarmi un lavoro, così da essere libera di non dipendere dalla politica o da un marito. Così è stato: prima insegnante, poi giornalista, contrattista di ricerca e poi professore a contratto e, l’impegno negli Organismi di pari opportunità ed ora al Ministero del Lavoro come Consigliera nazionale di Parità, che attualmente, assorbe la maggior parte del mio tempo.

E credo che questa pulsione verso la giustizia sociale e la passione per i temi della parità tra i generi siano, in qualche misura, una eredità lasciatemi da mio padre, sfatando, così, anche in questo, un altro pregiudizio semplicistico su di lui: che un uomo del Sud, di destra, per giunta, non potesse avere un’attenzione preferenziale per la condizione sociale del mondo femminile. E invece, il rispetto della donna e la sua indipendenza sono stati valori che mio padre mi ha sempre trasmesso. Anche quando nel 2004 ho aderito ad Alleanza Nazionale, lui non ha commentato in alcun modo questa mia decisione. Non ne era particolarmente entusiasta, ma ha detto che mi capiva. Credo, infatti, che l’unica cosa che, davvero, gli avrebbe procurato un dispiacere sarebbe stato se il mio sentire fosse stato diverso dal suo. E quello, come dicevo prima, non è mai cambiato. Passo diverso, sì, ma medesimo sentire, sempre.

Ci sono giorni in cui vorrei ancora dire di essere il suo francobollo. E sebbene il nostro rapporto sia necessariamente cambiato nel tempo, rimane sempre profondo, quasi viscerale, come quando da piccola mi ammalavo perché, come scoprì dopo molto girovagare, un vecchio pediatra, soffrivo per la lontananza di mio padre. Così, ancora oggi, lui continua a seguire la mia formazione, nonostante qualche acciacco di salute ed io, in cambio, mi offro per piccole commissioni che, però, lui tende sistematicamente a rifiutare. È un padre tenero ed accogliente, senza essere troppo protettivo. Anzi, come ho più volte sottolineato, mi ha lasciata libera, fin troppo, di scegliere e di sbagliare.

La politica per lui è stata ed è ancora una grande passione. Il suo atteggiamento è di quelli che “se anche mi dicessero che morirò domani, stanotte pianterei un albero nel mio giardino”. Si accinge, tra l’altro, ad opere che non vedrà crescere, ma questo non frena in alcun modo la sua voglia di fare e questo vale per la politica, ma non solo. Mi piace utilizzare una recente affermazione di Marcello Veneziani, che vedrei bene applicata per definire la generazione politica di mio padre, quella dell’ante politica. Una generazione di politici, cioè, che hanno vissuto, coerentemente, l’idea di politica come passione, come bene comune ed interesse nazionale. Forse è anche per questo che oggi più di prima, gli è riconosciuta una certa autorevolezza, anche dagli avversari.

Perché, per lui, la politica è socialità, idealità, prima di essere ideologia e progettualità. E forse oggi la debolezza di una certa politica sta nell’incapacità di trovare risposte adeguate ai problemi nuovi ed ai nuovi bisogni, elaborando.

Pino Rauti è mio padre, ma per molte generazioni della destra italiana è stato un riferimento politico ed intellettuale; invecchiare è uno degli eventi più naturali della vita, ma anche uno di quelli che si riescono ad accettare di meno, e questo vale sia come figlia sia come “militante”. So bene che la sua immagine pubblica, per forza di cose, appaia profondamente diversa da quella vera e privata; del resto, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare: repubblichino, fascista… sembravano dire tutto, invece riassumevano e non abbastanza, perché con questi schemi molto della sua persona e personalità resta escluso. Ma i pregiudizi, si sa, sono difficili da estirpare: sarebbe come abbandonare delle comode e rassicuranti certezze per impegnarsi nella fatica del conoscere e dell’andare in profondità.

Cosa vorrei dire a mio padre oggi? Molte cose, e gliele dirò! Intanto, per piacere, comprati una macchina nuova!


* Dice di sé:
Isabella Rauti. Laureata in Lettere e in Pedagogia, ha iniziato la sua carriera come insegnante nelle scuole superiori. Giornalista professionista e docente universitario a contratto, non ha mai abbandonato l’attività politica che la vede impegnata in prima fila sin dalla gioventù. Oggi si dedica principalmente ad attività associative ed istituzionali nel campo della parità di genere e delle pari opportunità. Ambito che la vede protagonista come autrice di libri, tra cui “Istituzioni politiche e rappresentanza femminile”, Editoriale Pantheon, 2004 e “La presenza delle donne nelle Istituzioni politiche: un deficit di democrazia”, Nuove Idee, 2005.

Anonimo ha detto...

DAL GHETTO AL TRONO DI ROMA
La traversata dei «CUORI NERI»

Articolo di Luca TELESE su
Il Giornale-martedì 29 Aprile 08

Erano «brutti sporchi e cattivi», come direbbe Ettore Scola. O «Esuli in patria», come ha detto Marco Tarchi, che era uno di loro. O «Topi di fogna», come dicevano i cori dei loro avversari, e come si rappresentano loro stessi - autoironicamente - sulle pagine del loro giornale preferito, La Voce della fogna.
Erano «Cuori neri» in una città rossa con un passato mussoliniano. A Roma i missini del Dopoguerra erano cresciuti come se fossero chiusi in un paradosso temporale. Da un lato vivevano nelle vestigia dell’Architettura del Ventennio, dell’Eur, del Foro italico, nel mito dell’aquila della Lazio (che all’occorenza poteva sembrare «imperiale»), sotto l’obelisco Dux (incredibilmente sopravvissuto alle commissioni per l’epurazione toponomastica). Dall’altro crescevano sotto i governi democristiani prima e «le giunte rosse» poi. Cantava Marcello De Angelis, guru della musica alternativa con il suo gruppo 270bis, oggi senatore di An: «Vieni a passeggio con me su «ponte Mussolini»/ Dove corrono i bambini con fazzoletti neri/ Oggi come ieri/ Oggi come ieri…» (il fatidico ponte, dal ’45 si chiama «Flaminio»).
Crescere nella Fiamma, a Roma, voleva dire essere minoranza politica, certo, ma anche capitale della destra in Italia, il partito più forte di tutto il Paese. C’era, in quel Movimento sociale uno strano impasto di popolo e aristocrazia: il sottoproletariato di Primavalle, l’orgoglio dei reduci della famiglia Mattei scampati al rogo; e la nobiltà nera, coi record elettorali del principe Lilìo Sforza Ruspoli, il latifondista che voleva la terra per i contadini ed era il più votato del Msi. Si ritrovavano sotto la bara trapezoidale sopra cui ardeva la Fiamma «della Buonanima» i nostalgici del regime e i neofascisti del Dopoguerra, e ci stava con il suo grande cuore persino uno come Aldo Fabrizi che negli anni Trenta era sotto controllo speciale dell’Ovra per le sue barzellette anti-regime. E che negli anni Novanta sarebbe stato considerato un appestato dalla sinistra cinematografica per il suo baciamano galante ad Edda Ciano il giorno dei funerali di Giorgio Almirante. Sulla Cinquecento in cui passava alcune delle sue notti, ha costruito una vera e propria mitologia privata Teodoro Buontempo detto Er Pecora: e a Roma c’erano tutte le destre che si combattevano e che si abbracciavano.
Dai nazimaoisti di Giurisprudenza occupata nel 1968, al «Bava» che aveva provato a sloggiare i suoi stessi camerati dalla facoltà a randellate, dagli Avanguardisti di Stefano delle Chiaie detto «er Caccola», dagli spiritualisti evoliani, ai mistici, agli intellettuali rautiani, ai librai ordinovisti, agli aspiranti golpisti del Fronte Nazione del principe Junio Valerio Borghese, ai cultori del «fascismo bucolico» come il professor Paolo Signorelli (fondatore delle comunità agricole), ai terroristi nichilisti dei Nar. Memorabile l’aneddoto di uno storico dirigente come Giulio Caradonna, su quando Beppe Niccolai (altro leader di lungo corso) gli riferì scandalizzato che c’erano sezioni in cui si ammazzavano i galli: «Ecchessarà mai se si fanno uno spiedo…», aveva risposto in un primo tempo. E quello: «Ah Giù, che hai capito? Quelli so’ riti sacrificali pagani!». E Caradonna, scandalizzato: «Ma come? stamo nel cuore della romanità e questi sognano de diventà barbari come Vercingetorige?».
In questo mondo iridescente e caotico in cui spesso si potevano trovare tutto e il contrario di tutto, c’era una sola famiglia politica molto compatta e solidale, quella cementata intorno ai figli del partito, i ragazzi del Fronte della Gioventù. Il responsabile giovanile era Buontempo, quello studentesco era Fini, quello degli studenti medi Gasparri, il suo vice Gianni Alemanno (!). Molti di loro avevano rischiato la pelle negli anni di piombo, quando vivere in un quartiere rosso o nero poteva fare la differenza fra la vita e la morte, e Storace diventava segretario di Acca Larentia perché tre missini erano morti ammazzati. Dei ventuno ragazzi di Destra morti fra il 1970 e il 1983 ben 11 erano di Roma. «Io li ho conosciuti tutti!», disse un giorno Fini. Di uno di questi - Paolo Di Nella - Alemanno era amico fraterno. Il Fronte della Gioventù viveva stati d’animo variabili, a tratti si sentiva fortino assediato o ghetto; altre volte comunità separata scanzonata e goldiardica. Alemanno stava al Righi, un liceo «tutto sommato di destra», ed era più tranquillo. Ma se doveva raccontare quegli anni sintetizzava con una immagine: «A due passi c’era il Tasso, che era tutto di sinistra, il ricordo più nitido che mi viene in mente è questo, Maurizio Gasparri e Antonio Tajani che corrono, e dietro 200 persone che li rincorrevano». Anche il Fronte aveva la sua milizia di mazzieri: «Li chiamavamo Gi-O, gruppi operativi. Passavano la giornata in sezione accanto al telefono - ricorda il futuro sindaco - e quando venivano chiamati correvano di qua e di là» (non certo a distribuire viole): «Una sorta di ambulanza nera». Molti di questi ragazzi neri facevano il loro apprendistato a Il Secolo d’Italia, al punto che il direttore del Tg2 Mauro Mazza ci ha scritto sopra un bel libro di amarcord, I ragazzi di via Milano. Poteva anche accadere che per pagare l’affitto della sede di via Sommacampagna - lo racconta Buontempo - i giovani missini venissero arrestati sotto un ponte del Tevere. «Stavamo bruciando le lastre in un bidone per estrarre nitrato d’argento da rivendere - ricorda oggi ridendo lui -, ci scambiarono per papponi, ci ritrovammo in questura!».
Negli anni Ottanta, quando Alemanno diventa segretario del Fronte della Gioventù, battezza una stagione di apertura «all’esterno», un tentativo di forzare le pareti del «ghetto» missino: è il tempo dei «campi Hobbit», dei convegni sugli anni Settanta, della «Nuova Destra», del tentativo di chiudere (con un omonimo fantastico libro) la stagione del «C’eravamo tanto armati». Gli anni Ottanta furono gli anni in cui Alemanno invitava il comunista Trombadori a chiudere con un dibattito gli anni dell’antifascismo ideologico, in cui i missini si specializzavano nell’opposizione ai governi di pentapartito, si radicavano nel territorio con i murales di Colle Oppio, con i balder disegnati sui muri, i caratteri un po’ gotici e un po’ runici dei loro tazebao. «È amore per il proprio popolo», si leggeva sui manifesti serigrafati dall’avvocato Rampelli (futuro deputato), nelle edicole usciva una rivista sperimentale con un titolo epidemico (da cui lo slogan indimenticabile «Diffondi il Morbillo»). Alemanno e l’intellettuale di riferimento della nuova destra, Umberto Croppi, si candidavano alla regione con un volantino in cui andavano in 500 sulla luna. Slogan: «L’altra faccia della politica». L’amatissimo Tony Augello fa campagna elettorale in carrozzella e megafono. Tutto cambia quando nel 1993 Fini si candida a sindaco di Roma, da Casalecchio di Reno Silvio Berlusconi dice: «Se fossi a Roma lo voterei». Quasi con un colpo di bacchetta, sulle rovine della Dc, il Msi tocca il 47%. Alemanno nel 1994 fu eletto nell’uninominale nelle periferia di Corviale (dove ha aperto la sua campagna). Nasce la destra di governo, si celebra il rito di Fiuggi, finisce il Msi. «Erano zucche, li ho trasformati in principi», disse una volta il Cavaliere. L’unica cosa certa è che oggi uno di quei ribelli un tempo neri diventa sindaco dedicando la sua vittoria «ad Augello e agli elettori trasversali e di sinistra che mi hanno votato».
Quanta acqua è passata sotto il «Ponte Mussolini».

Luca Telese

Anonimo ha detto...

Oggi, 19 Maggio 2008 sono 110 anni dalla nascita del principale Pensatore della Tradizione:
JULIUS EVOLA.

Pur essendo lontani dal SUO IMPERIALISMO PAGANO e dalle sue preoccupazioni razziali (che ad onor del vero riguardavano categorie spirituali più che materiali, rendendolo perciò inviso ai razzisti materialisti nazisti) riteniamo giusto celebrane la memoria ed invitare a misurarsi con la sua opera, soprattutto per quanto attiene LA RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO, GLI UOMINI E LE ROVINE e ORIENTAMENTI.

Riportiamo qui di seguito il profilo biografico curato dalla Fondazione Julius Evola.

Buona Lettura

IL GUERCIO

Nell'introduzione alle Enneadi Porfirio scrisse di Plotino: "Della sua origine dei suoi parenti, della sua patria non amava parlare: né mai permise che pittore o scultore gli facesse il ritratto, quasi si vergognasse di avere un corpo".

Di Julius Evola si potrebbe dire la stessa cosa: degli anni dell'infanzia e dell'adolescenza infatti sappiamo poco o nulla, e poco o nulla conosciamo, attraverso di lui, di episodi, esperienze o solo aneddoti della sua vita. Nel Cammino del Cinabro, un libro considerato la guida attraverso i suoi libri e le sue idee, e che possiamo tranquillamente definire la sua autobiografia spirituale, Evola non si abbandona mai all'onda dei ricordi: si ha così l'impressione che nulla nella sua vita sia stato lasciato in sospeso e che soprattutto lui stesso considerasse la sua persona semplicemente come il veicolo, lo strumento, il canale di trasmissione dell'idea tradizionale e della sua etica che ammonisce non esser importante chi agisce ma l'azione compiuta.

Julius Evola nasce a Roma il 19 maggio del 1898 da una famiglia siciliana di antiche origini nobili, le prime notizie, scarne, che lo riguardano le apprendiamo dal Cammino del Cinabro: "Nella prima adolescenza si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto, subito dopo il periodo di romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico. una storia della filosofia, a base di sunti. D'altra parte. se mi ero già sentito attratto da scrittori come Wilde e D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi. a tutta la letteratura e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato e libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro con pensatori come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger".

Parallelamente era catturato dalla cultura più anticonformista di quel tempo: Marinetti e il futurismo, Papini e Lacerba, Tzara e il dadaismo. Evola fu in contatto anche epistolare con Tzara e lui stesso s'impegnò nel dadaismo dipingendo alcuni quadri che gli hanno fruttato la qualifica di maggiore e più interessante esponente del dadaismo italiano. Sono dipinti questi le cui geometrie metafisiche sprigionano un'aurea come quelle di alcune poesie, scritte anch'esse in quegli anni. Una dedicata all'alba recita così: "A levante ora il cielo si diluisce I ha dissonanze in roseo I mentre giungono lentamente impolverati suoni flautati".

Evola sentiva fortissimo l'impulso alla trascendenza: "quasi il desiderio di una liberazione o evasione non esente da sfaldamenti mistici", ma allo stesso tempo la disposizione intima di kshatriya, di guerriero, gli portava un impulso per l'azione. Nel 1917 partecipa diciannovenne al primo conflitto mondiale come ufficiale di artiglieria. Evola non è un nazionalista, è attratto anzi dagli Stati imperiali contro cui deve combattere. Viene assegnato a posizioni montane di prima linea vicino ad Asiago dove cominciano, forse, le sue meditazioni delle vette, il suo amore per l'alpinismo e la montagna come espe­rienza interiore.

Evola, che non viene impegnato in azioni militari di rilievo, finita la guerra rientra a Roma: gli anni che seguono saranno per lui quelli di una crisi esistenziale drammatica e decisiva. Scrive nel Cammino: "Col compiersi del mio sviluppo, si acutizzarono in me l'insofferenza per la vita normale alla quale ero tornato, il senso dell'inconsistenza e della vanità degli scopi che normalmente impegnano le attività umane. In modo confuso ma intenso, si manifestava il congenito impulso alla trascendenza".

Evola sente il bisogno di raggiungere una percezione più profonda e reale della realtà oltre quella, limitata, dei cinque sensi fisici: comincia a far uso di sostanze stupefacenti per placare in qualche modo la sua fame di assoluto. Ciò però non risolve nulla, anzi aggrava la situazione tanto che giunge ad un punto morto: ha 23 anni, l'età in cui si suicidarono Weininger e Michelstaedter. Decide di farla finita anche lui, di chiudere la partita con la vita.

Ma accade qualcosa: “Questa soluzione”, scrive Evola, “fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini”. Così recitava il testo del Buddha: "Chi prende l'estinzione come estinzione, e presa l'estinzione come estinzione pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa 'mia è l'estinzione' e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione". "Fu per me una luce improvvisa". scrive Evola. "in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi”.

Evola non rinnegherà mai certe esperienze, ma terrà a specificare che non divenne schiavo delle droghe e che successivamente non ne senti più il bisogno né la mancanza. Intanto, si conclude una fase. Già nel 1921 infatti, Evola smette del tutto la pittura, e dopo il 1922 cessa anche di scrivere poesie.

Comincia il periodo filosofico: già nel 1917, in trincea, aveva iniziato a scrivere Teoria e Fenomenologia dell'individuo assoluto, un'opera che conclude nel 1924 e che viene pubblicata in due volumi, dall'editore Bocca, nel 1927 e nel 1930. In questi due libri Evola associa il suo interesse per la filosofia a quello per le dottrine riguardanti il sovrarazionale, il sacro e la Gnosi. L'obiettivo era tentare il superamento della dualità io/non-io: il soggetto che percepisce il mondo deve sentire che quell'io che ha evocato il mondo è lui stesso, che i confini del suo essere sono più estesi di quelli di cui è cosciente nella esperienza di veglia, deve comprendere che il mondo è una "ipnosi cristallizzata alla quale", scrive Adriano Romualdi che fu suo discepolo e suo esegeta, "si sfugge svegliandosi dal mondo dei sensi con una disciplina della mente".

Nelle teorizzazioni di Evola c'era l'influenza della sapienza tantrica che divulga con L'uomo come potenza edito da Atanòr nel 1926. Com'è, noto i Tantra negano ogni dualismo tra dio e natura, tra uomo e mondo: questo mon­do che ci circonda è la divinità stessa e la stessa divinità non è differente dall'io definitivamente liberato: la realtà è celata dal "velo di Maya" che la ispessisce, ma una volta rimosso il velo l'occhio percepirebbe che l'intero universo non è che un'espressione del proprio Sé.

Questi sono gli anni in cui Evola comincia a frequentare i circoli dello spiritualismo romano: entra in contato con kremmerziani, antroposofi teosofi, ma sono anche gli anni delle avventure galanti sullo sfondo di una Ro­ma notturna. Su questo argomento Evola ha sempre tenuto un certo riserbo, ma di una vicenda in particolare sappiamo dal romanzo Amo dunque sono (1927) della scrittrice Sibilla Aleramo con la quale Evola ebbe un tempestoso rapporto sentimentale.

Del 1924-26 sono le collaborazioni a riviste come Ultra, Bilychnis. lgnis, Atanor. Del 1927-29 è l'esperienza del "Gruppo di UR" di cui Evola è il coordinatore dando vita ad una serie di fascicoli, un'antologia dei quali uscirà per Bocca nel 955-6 in tre volumi col titolo: Introduzione alla Magia quale Scienza dell'Io. Qui magia è appunto "scienza dell'Io", apertura verso stati di percezione più sottili, tecnica di risveglio interiore.

Intanto in Italia aveva preso forma il fascismo. Evola era già intervenuto nel dominio della politica collaborando nel 1924-5 a Il mondo e a Lo Stato democratico, testate dichiaratamente antifasciste ma disposte ad ospitare le sue riflessioni ispirate ad un antifascismo antidemocratico. Eppure il suo interessamento a questa sfera non gli aveva mai creato condizionamenti, né lui si era proposto di esercitarli. Nel 1928, invece, con Imperialismo pagano (Atanòr) Evola, dopo una violentissima critica al cristianesimo, si rivolge esplicitamente al fascismo invitandolo a tagliar corto con i cattolici. Il libro gli vale una serie infinita di problemi. Evola stesso, nella sua maturità, giudicherà quest'opera estremistica, un pamphlet giovanile.

Tra il 1927 e il 1929, ha un carteggio con Giovanni Gentile. L'argomento è la collaborazione di Evola all'Enciclopedia Treccani per la voce sull'ermetismo, lettere in cui Evola trova l'occasione per segnalare al Gentile alcune delle sue posizioni anche in materia filosofica e di critica della civiltà. L'epistolario oltre a dimostrare il riconoscimento della competenza di Evola in materia dì scienze occulte da parte del Gentile, denota l'intenzione di Evola di aprire un dialogo con la cultura ufficiale del regime.

Dal 1925 al 1933 ha un rapporto epistolare anche con Benedetto Croce. Evola ha accennato al rapporto con Croce nel Cammino del Cinabro, ma è grazie alle ricerche di Stefano Arcella che oggi se ne conosce il contenuto. Il motivo specifico del carteggio è quello di pubblicare presso Laterza le opere filosofiche: Teoria e fenomenologia, Nelle lettere Evola nconosce al Croce "quel vasto, oggettivo senso di comprensione, che lo distingue così nettamente dal settarismo e dal dogmatismo oggi così diffuso in Italia". Croce spenderà per queste opere un sincero apprezzamento, giudicandole “ben inquadrate filosoficamente”. Con Teoria e Fenomenologia il periodo filosofico di Evola è concluso.

Nel 1930, insieme ad altri amici, tra cui Emilio Servadio, padre della psicanalisi italiana, Evola dà vita a La Torre: "Fu un nuovo tentativo di sortita nel dominio politico culturale. Abbandonando le tesi estremiste e poco meditate di Imperialismo pagano, riferendomi invece al concetto di Tradizione", scrive Evola, "volli vedere fino a che punto con esso si potesse agire sull'ambiente italiano, fuor dal campo ristretto di studi specializzati". Nell'editoriale del primo numero si propugna una rivolta radicale contro la civiltà moderna con queste parole: "La nostra parola d'ordine, su tutti i piani, è il diritto sovrano di ciò che fu privilegio ascetico, eroico e aristocratico rispetto a tutto ciò che è pratico, condizionato, temporale... è la ferma protesta contro l'onnipervadenza insolente della tirannide economica e sociale, e contro il naufragio di ogni punto di vista superiore in quello più meschinamente umano".

Ma Evola non aveva una buona fama presso varie autorità del regime, Imperialismo pagano non viene gradito e meno ancora piace ora l'intransigenza della Torre, la sua indisponibilità assoluta a piegarsi ai conformismi e ai tatticismi della politica. Sempre nel primo numero, in un articoletto intitolato Carta d'identità, si legge: "La nostra rivista è sorta per difendere dei principi che per noi sarebbero assolutamente gli stessi, sia che ci trovassimo in un regime fascista, sia che ci trovassimo in un regime comunista, anarchico o democratico. In sé questi principi sono superiori al piano politico; ma applicati al piano politico, essi possono solo dar luogo ad un ordine di differenziazioni qualitative, quindi di gerarchia, quindi anche di autorità e di Imperium nel senso più ampio". E veniva aggiunto a mo' di chiusa: "Nella misura in cui il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto".

Ciò che fece saltare i nervi al peggiore fascismo fu una rubrica interna della Torre: L'arco e la clava. Dopo alcuni attacchi, "... si scatenarono le reazioni più violente e brutali, tanto più che ad esser presi particolarmente di mira... erano degli autentici gangsters, uomini privi di ogni qualificazione ai quali per il semplice fatto di essere stati degli squadristi o di ostentare un ottuso fanatismo era stato accordato di fungere da arroganti rappresentanti del pensiero e della 'cultori' fascista, col risultato di offrire uno spettacolo pietoso”.

Per un certo periodo, a seguito di queste polemiche, Evola deve girare per Roma con una personale guardia del corpo. Viene prima diffidato dal continuare a pubblicare la rivista poi, siccome della diffida non tiene alcun conto, la polizia politica proibisce a tutte le tipografie di stampare la Torre. Finisce così l'avventura della Torre che uscì per dieci numeri fino al 15 giugno del 1930.

In un clima di conformismo e di adulazione al Duce La Torre era stata una meteora accesa in un mondo culturale abbastanza grigio, anche perché, nelle pagine della rivista era contenuto il nucleo originario dei libri che Evola pubblicò subito dopo presso Laterza e Bocca, libri che indagavano il inondo dei simboli primordiali e dell'esoterismo: La Tradizione ermetica del 1931, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, il mistero del Graal del 1937.

Il primo e il terzo libro delineano la via occidentale alla gnosi: l'alchimia e la ricerca del Graal, la religione segreta dell'imperialismo ghibellino. Il secondo, Maschera e volto, è un'opera volta ad indagare criticamente le correnti pseudo-spirituali di allora e di oggi: lo spiritismo, il superomismo, il satanismo, certi misticismi. Ma vi è anche lo studio e l'apprezzamento di autori come Meyrink e il Kremmerz, e qualche giudizio, forse un po' troppo sbrigativo su Steiner, un pensatore cui Evola è stato sotto certi aspetti concernenti le scienze spirituali, debitore.

Dopo l'esperienza de La Torre Evola comprende che per poter agire con una certa libertà occorre essere ben protetti dentro qualche base della cittadella fascista. Le basi sono il mensile La Vita Italiana di Giovanni Preziosi e il quotidiano Il Regime Fascista di Farinacci, un uomo oggi universalmente esecrato ma del quale Evola scrive parole di stima: "Chi era con lui poteva esser sicuro di non esser tradito, di esser difeso sino all'ultimo, se la sua causa era giusta".

Su questa testata Evola reincarna praticamente la battaglia della Torre ora con la sua pagina speciale "Diorama Filosofico" alla quale collaboravano autori di grande prestigio come Guénon, Dodsworth, Benn e Paul Valery, tutti accomunati da una visione del mondo aristocratica, antiborghese, antimoderna e tradizionale. Evola dal canto suo attacca il sentimentalismo, la retorica del fascismo piccolo borghese, demolisce il razzismo biologico, lo scientismo, l'umanitarismo in nome di un elitarismo ascetico, sapienziale e cavalleresco.

Nel 1934 appare l'opera fondamentale e principale di Julius Evola: Rivolta contro il mondo moderno. In Rivolta Evola traccia un affresco grandioso della morfologia della storia che vien letta con lo schema ciclico tradizionale delle quattro età (oro, argento, bronzo, ferro, nella tradizione occidentale; satva, treta, dvapara, kali yuga, in quella indù), comune ad Oriente ed Occidente.

Il libro si divide in due parti: la prima tratta di "una dottrina delle categorie dello spirito tradizionale: la regalità, la legge, lo stato, l'Impero, il rito e il patriziato, l'iniziazione, le caste e la cavalleria, lo spazio, il tempo, la terra e poi il sesso, la guerra, l'ascesi e l'azione". La seconda parte contiene "un'interpretazione della storia su base tradizionale partendo dal mito". Il libro si fonda sulla dialettica tra mondo moderno e mondo della Tradizione: il mondo moderno poggia sui criteri dell'utile e del tempo, il mondo della Tradizione sui valori del sacro e dell'eternità. Quello attuale è il tempo del ferro, il kali yuga, in cui l'ordine cede al caos, il sacro alla materia, l'uomo all'animale, ove dilaga la demonia delle masse e del sesso, dell'oro e della tecnica scatenata; un'epoca senza pietà, senza luce, senza amore.

Il poeta tedesco Gottfried Benn dirà di Rivolta contro il mondo moderno: "Chi lo legge si sentirà trasformato".

Nel 1938 in Italia alcuni si improvvisano razzisti e danno vita al Manifesto della razza dove viene riproposto confusamente il razzismo nazista, una rozza dottrina deterministica che non vede nulla al di là del corpo. Ad Evola il razzismo ripugna: per lui teoria dell'eredità eugenetica e vitalismo naturalistico sono abiezioni moderne. Ma d'altro canto non crede alla promiscuità comunistica ove ogni differenziazione scompare in una totalità animale. Per questo dal 1937 al 1941 studia il problema del razzismo, al quale si era già applicato all'inizio degli Anni Trenta. Scrive due libri Il mito del sangue nel 1937 e Sintesi di dottrina della razza nel 1941, editi da Hoepli.

Per Evola è lo spirito che informa di sé il corpo: “Il concetto della razza dipende dall'immagine che si ha dell'uomo... Come salda base della mia formulazione presi la concezione tradizionale che nell'uomo riconosce un essere composto da tre elementi: il corpo, l'anima e lo spirito. Una teoria completa della razza doveva perciò considerare tutti tre questi elementi”.

Evola in questo lungo dopoguerra si è visto etichettare indelebilmente come razzista, che oggi è più di un'accusa, è un anatema, mentre personaggi come Guido Piovene e Luigi Chiarini negli Anni Trenta feroci antisemiti nel dopoguerra si sono ammantati di rispettabilità antifascista. Sta di fatto che Evola, per le sue posizioni in merito alla razza, fu osteggiato da ambienti ufficiali tedeschi, come oggi rivelano i documenti segreti del ministero degli interni del Reich e della Anenherbe, la sezione ideologica delle SS.

In questo periodo Evola compie alcuni viaggi, soprattutto in Germania, dove tiene un numero considerevole di conferenze. Del 1938 è l'incontro in Romania con Cornelio Codreanu, del quale Evola, in un articolo che ne ricordava la figura, scrive parole di grande stima.

Intanto dal 1940 l'Italia è in guerra, all'inizio della compagna contro l'URSS Evola chiede di partire volontario. Ma la risposta giunge quando ormai l'Armir è in ritirata, motivo del ritardo: Evola non è tesserato al partito fascista!

L'8 settembre sorprende Evola in Germania. È tra i pochi, con Preziosi, il figlio Vittorio e qualche altro, ad accogliere Mussolini, liberato da Skorzeny al Gran Sasso, al Quartier Generale di Hitler. Aderisce alla RSI, lui monarchico, aristocratico e reazionario aderisce ad una repubblica sociale. Una contraddizione? Evola non sposa i punti di Verona, ma lo spirito legionario di chi, pure ormai militarmente sconfitto, rimane fedele ad un'idea scegliendo di battersi su posizioni perdute.

Nel 1943, in un'Italia sconvolta dalla guerra esce per Laterza La dottrina del risveglio, saggio sull'ascesi buddhista. Scrive Evola nella sua autobiografia: “Il carattere aristocratico del buddhismo, la presenza in esso della forza virile e guerriera (è un ruggito di leone che designa l'annuncio del Buddha) sono stati i tratti che io ho messo in rilievo nell'esposizione ditale dottrina". D'altronde abbiamo visto come Evola avesse un debito con la dottrina del principe Siddharta: il libro è anche un gesto di gratitudine.

Negli ultimi anni della guerra Evola è prima in Germania poi a Vienna, in questa città, probabilmente nell'aprile del 1945 si trova coinvolto in un bombardamento mentre passeggia per strada. Evola viene sbalzato da uno spostamento d'aria: una lesione al midollo spinale gli provoca una paralisi agli arti inferiori che purtroppo, malgrado tentativi chirurgici e sottili, risulterà definitiva. Può sembrare strano, e di fatto ad una logica comune lo è, che Evola passeggiasse per le vie di Vienna durante un bombardamento ma, spiega nel Cammino, "il fatto non fu privo di relazione con la norma, da me già da tempo seguita, di non schivare, anzi di cercare i pericoli nel senso di un tacito interrogare la sorte". E poi commenta così la sua paralisi, quasi che fosse quella di un altro: “Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, poco mi toccava, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo pregiudicata o modificata".

Poi con distaccata ironia aggiunge - è il 1961: "Per intanto, mi sono adeguato con calma alla situazione, pensando umoristicamente talvolta, che forse si tratta di dèi che han fatto pesare un po' troppo la mano, nel mio scherzare con loro

Non era nuovo a questo contegno. Pio Filippani-Ronconi, in un ricordo di Evola scrive: "Amo raffigurarmi la solitudine di Evola con l'immagine del suo soggiorno viennese durante la guerra: quando, durante i più terrificanti bombardamenti aerei, il silenzio fra le esplosioni era punteggiato dal ticchettio della sua macchina da scrivere, sulla quale, indifferentemente allo squasso circostante, continuava placidamente a lavorare".

Dopo l'esplosione Evola si risveglia in ospedale, si guarda intorno e chiede che fine abbia fatto il suo monocolo.

Nel 1948, grazie alla Croce Rossa Internazionale. viene trasferito a Bologna. Nel 1951 rientra nella sua casa di Roma. Sono cinque anni di vero e proprio calvario passati in letti d'ospedale con assistenza precaria e cibo al limite del commestibile. Evola considera tutto ciò come una prova di autosuperamento. Del passato non rimpiangeva nulla, o quasi. Gianfranco de Turris che dal 1968 sino alla morte gli è stato assiduamente vicino, ha scritto che gli mancavano soprattutto Vienna e la montagna, il mondo dell'aristocrazia e la solitudine delle vette.

Evola si guarda intorno e vede un panorama di rovine, non solo materiali. Non ha più alcuna speranza negli uomini; invece viene a sapere che esistono dei gruppi giovanili che non si sono lasciati trascinare nel crollo generale e che leggono i suoi libri. Per questi giovani nel 1950 scrive Orientamento dove sviluppa in undici punti le direttrici di un'azione Politico-culturale. "Non senza relazione con ciò", scrive Evola, “mi trovai coinvolto in una comica vicenda”. Si riferisce al processo contro i FAR dei quali viene indicato, e arrestato come ispiratore.

"Naturalmente e ancora la voce di Evola, "la cosa finì in un nulla, quasi tutti gli imputati vennero assolti". A difendere gratuitamente Evola c'è un avvocato antifascista Francesco Carnelutti. Personalmente tiene anche una brillante autodifesa poi pubblicata, dove oltre a chiarire la sua posizione (aveva Scritto un paio di articoli su Imiperium. la rivista dei neofascisti ed era all'oscuro delle azioni illegali di questi che furono comunque tanto inutili quanto innocue), mette in chiaro la sua visione del mondo, anche per ribattere alle accuse di apologia del fascismo. Scrive Evola ricordando quel fatto:

"Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo. non in quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in genere, io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si do vano far sedere sullo stesso banco degli accusati Platone, un Metternich, n Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo".

Ne 1953 Evola dà alle stampe Gli uomini e le rovine che è l'estensione degli un ci punti di Orientamenti. Il libro è l'ultimo tentativo di promuovere la formazione di uno schieramento di vera Destra. Lo Stato che delinea Evola è lo Stato organico che ha come base “i valori della qualità, della giusta diseguaglianza e della personalità... ad ognuno il suo e ad ognuno il suo diritto, conformemente alla sua dignità naturale".

Nulla a che vedere con lo Stato totalitario e poco a che vedere, purtroppo, anche col fascismo.

Nel 1963 Evola scrive per la casa editrice Volpe un libretto intitolato: Il Fascismo visto dalla Destra. Contro ogni esaltazione, come contro ogni partigiana denigrazione, Evola enuclea, dal punto di vista dell'idea tradizionale, ciò che di positivo e di negativo risultava nel fenomeno fascista: dà atto al fascismo di aver sollevato gli antichi simboli dell'ascia e dell'aquila, di aver teorizzato un uomo nuovo, di aver agitato il mito dell'ordine e della gerarchia, ma lamenta che tutto sia rimasto a livello di propaganda sia per i tempi, inadatti, sia per la qualità umana che compose i quadri del fascismo, la quale in gran parte, in questo dopoguerra ha composto con la stessa ottusità quelli dell'antifascismo. Il fascismo, in definitiva per Evola, è stato un tentativo generoso ,ma va inquadrato nella fenomenologia delle ideologie moderne.

Nel 1958 intanto era uscito anche Metafisica del sesso un libro tra i più suggestivi di Evola dove viene messa in luce la forza basale. magica e potentissima del sesso, l'ultima, in un mondo ormai desacralizzato, assieme all'esperienza de! l'innamoramento, a rivestire un carattere sacro ove possa balenare un lampo di trascendenza, una rottura di livello della coscienza ordinaria dell'uomo e della donna.

Nel 1961, parallelo a Gli uomini e le rovine, era uscito Cavalcare la tigre, il breviario di chi deve vivere in un mondo che non è il suo forte della propria invulnerabilità. Evola si rivolge a quel tipo di “uomo differenziato” che pur non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, non ha nessuna intenzione di cedere ad esso né psicologicamente né esistenzialmente. "Occorre far sì che ciò su cui non si può nulla, nulla possa su di noi", occorre "cavalcare la tigre" perché la tigre non può colpire chi la cavalca. Bisogna aprirsi senza perdersi, concedersi soltanto ciò di cui si è sicuri di poter fare anche a meno. La differenza tra l'anarchico tout court e l'anarchico di Destra, è che il primo vuol essere libero da tutto tranne dalle sue bassezze e dai suoi vizi, il secondo non riconosce al mondo attuale nessuna legittimità e nessuna legge, ma cerca la libertà in se stesso, il dominio su di sé. l'autarchia; chi cavalca la tigre, non è amico della tigre.

Nella sua abitazione romana di Corso Vittorio Emanuele, Evola vive in affitto e sopravvive con una pensione d'invalido di guerra. Traduce libri, scrive articoli per diverse testate, riceve amici e curiosi. Così lo descrive Adriano Romualdi in un libro del 1968, in occasione del suo settantesimo compleanno: "Chi si recasse da Evola per incontrarvi un ispirato, un profeta, o per udire sentenze ed enigmatici motti, rimarrebbe deluso. Del pari, chi fosse cupido di atteggiamenti preziosi, ricercati o, comunque, remoti dall'ordinario vi troverebbe soltanto un signore dai capelli non ancora bianchi, dalla figura - nonostante la forzata immobilità - ancora imponente, il tratto distinto ed affabile, il volto curioso, intelligente, attento. Più che un santone un aristocratico e, quasi per una certa finezza di modi ancien régime, una figura di filosofo e viaggiatore settecentesco. Eppure", continua Romualdi, con un po' di osservazione potrebbe notare che quell'espressione attenta è la spia di una perpetua vigilanza, di una personalità che 'veglia su se stessa con continua disciplina, “natura intellettuale priva di sonno”.

Nel 1968, mentre il suo pensiero viene contrapposto nelle università a quello di Marcuse, Evola viene colpito da uno scompenso cardiaco acuto. Lo stesso malore si ripeterà nel 1970. In questa occasione viene fatto ricoverare dal suo medico e personale amico. Evola, in ospedale, infastidito dalle suore che lo assistono, minaccia di denunciarlo per sequestro di persona.

Anche se il corpo è stanco lo spirito di Evola è forte e combattivo: continua a scrivere, a rilasciare interviste, a ironizzare se qualcuno lo va a trovare con la ragazza, lui s'infila il monocolo e inscena un corteggiamento, oppure a chi in un'intervista gli chiede molto serioso, dove potrebbe rivolgersi chi sia interessato alle scienze occulte lui risponde: "Se si tratta di giovani donne, anche qui, a casa mia".

Scherza su di sé e gli altri, è sereno.

La salute però peggiora costantemente, perde le forze, il corpo s'indebolisce, ha difficoltà respiratorie ed epatiche. Comincia a contrarre banali infezioni, mangia poco e malvolentieri.

Verso la fine di maggio del 1974 si sente sempre più debole, e sempre più consapevole che il vestito fisico non lo regge più. Pierre Pascal, che va a rendere l'ultimo omaggio al Maestro così lo ricorda negli estremi giorni di vita: "Gli dissi il desiderio supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché fossero disperse [...] ha brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta. Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: “Io vorrei... ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una montagna”.

Martedì 11 giugno, nel primo pomeriggio Evola, sentendo vicina la morte si fa condurre al tavolo dì lavoro di fronte alla finestra che dà sul Gianicolo; sono le quindici quando spira reclinando il capo. Nel suo testamento aveva stabilito che il corpo venisse cremato, che non vi fossero cerimonie cattoliche né annunci.

Le ceneri, secondo quanto scritto nelle sue ultime volontà, vengono consegnate alla guida Eugenio David suo compagno di scalate tanti anni addietro. Un parente del David e una schiera di seguaci seppelliscono una parte delle ceneri del Maestro in un crepaccio del Monte Rosa, le altre vengono lanciate al vento.

Anonimo ha detto...

Grazie Stamerra!
Ora capisco perché non hai mai voluto rispondere a chi cercava di trascinarti in inutili polemiche personalistiche.
Dieci, cento, mille volte meglio usare il blog per riscoprire le radici e la storia della destra italiana.
Anche se a me piacerebbe saperne qualcosa di più di quella salentina.
Non puoi pubblicare anche estratti da altri blog personali e politici?
continua così grazie.
Gigi del prete

Anonimo ha detto...

Pure antisemiti siete diventati!
Se lo sapesse quel vostro pretuncolo di Mantovano!
Ritiratevi, che fate solo ridere!

Graziano ha detto...

AMARCORD
la Giovane Destra a Lecce negli anni 70.
Questo pezzo che segue è la magistrale descrizione del momento cruciale dell'impegno militante a Lecce. E' dovuta alla penna di Giuseppe Puppo, allora giovane militante del Fronte della Gioventù (ha due anni meno di me)ed oggi giornalista e scrittore a Torino.
Inquei giorni c'ero anch'io, venivo con l'autobus da Nardò la mattina alle 8 e ripartivo dopo dodici ore; ufficialmente per seguire le lezioni di matematica all'università in realtà a vivere quel mondo di militanza.
Alla descrizione di Puppo aggiungo due piccole note una di carattere generale l'altra personale.
Il 3 giugno del 1977, in una piazza S. Oronzo annebbiata dai fumogeni, assediata dalla "Canea Rossa" (come si diceva allora) Pino Rauti dal Palco ci grido' riferendosi ai nostri avversari "Non odiateli, disprezzateli soltanto perchè l'odio è un sentimento che va dal basso verso l'alto mentre il disprezzo va dall'alto verso il basso e noi siamo molto più in alto di loro".
L'episodio personale riguarda la mia corsa a perdifiato verso la federazione di via Vignes il 12 novembre 77, inseguito da un maresciallo della squadra politica in borghese; avevo 21 anni e 40 chili in meno, il maresciallo aveva più di 50 anni ed era in evidente sovrappeso riuscì a tenermi dietro per pochi passi e ad urlare un "si fermi" che esaurì il fiato residuo. Io urlai, continuando a correre "Si qualifichi" e svoltai rapidamente un angolo salvandomi da ltre reazioni. (il maresciallo l'ho incontrato 25 anni dopo quando è venuto al Caf per presentae il 730 e ci siamo riconosciuti a vicenda).
In federazione quel giorno Vincenzino Spagnolo ed il Comandante Becherini erano agitatissimi mentre Giorgio Bortone, incazzatisimo, chiuse dentro tutti quelli che lì si erano rifugiati ed ando' in questura a difendere i due arrestati"lu mariu" e Manolo. Io me la svignai, dovevo prendere la corriera delle due per casa, era sabato e l'università chiudeva al pomeriggio e non avevo alibi alcuno per mio padre.
Buona lettura a tutti
Graziano De Tuglie


QUELLA LUNGA, CALDA ESTATE DEL '1977 A LECCE
Di giuseppe (del 16/07/2007 @ 14:56:17, in blog, linkato 30 volte)
Ho scritto nel fine settimana questo articolo che da Lecce mi han chiesto per il quotidiano LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO.
A trent’anni di distanza
QUELLA LUNGA, CALDA ESTATE DEL ’77 A LECCE
di Giuseppe Puppo *
I sogni e gli spari. Si chiama così il più bel saggio( Emiliano Sbaraglia per Azimutlibri) fra i tanti che sono usciti in questi ultimi mesi in tutt’Italia a rievocare e celebrare il così detto ‘”77”, trent’anni dopo.
Gli amici di Lecce, i “camerati” di allora, mi chiedono di rievocare pubblicamente il 1977 dell’ambito locale leccese, visto dalla nostra parte, che era poi quella della destra, più o meno dentro e fuori il Movimento sociale italiano, fra la fiamma tricolore e la croce celtica.
Lo faccio volentieri.
Ripensare il passato, specie quello prossimo, è sempre un esercizio meritorio: per quanto possa scendere un velo di tristezza sui bilanci che non quadrano mai, consente di aguzzare l’ingegno, storicizzare le esperienze, sperimentare la maturità che nel frattempo dovrebbe essere sopravvenuta.
Nella fattispecie, poi, mi sembra che gli avvenimenti leccesi rispecchino alla perfezione il senso di quelli nazionali e permettano dunque una chiave di lettura emblematica di un intero fenomeno generazionale.
I sogni - di alternativa, come si diceva allora - erano quelli dei ragazzi di vent’anni, che credevano di poter cambiare il mondo, sia pur da opposti schieramenti e più o meno direttamente, o indirettamente, coinvolti in un clima di violenza parcellizzata sul territorio, comunque di tensione continua - il destino in comune condiviso dalla mia generazione - perché portati, direi costretti quasi a scannarsi, dal “sistema”, che ne sfruttava così l’entusiasmo, per sopravvivere a sé stesso, rafforzarsi, rigenerarsi e perpetuarsi.
Comunque, così fu scavato un solco così profondo, che ancora oggi rimane, marcato e incolmabile, fra chi allora fu da una parte e chi dall’altra.
Gli spari, a Lecce si concentrarono invece in due occasioni, all’inizio e alla fine della lunga estate salentina, a giugno, al comizio di Pino Rauti in piazza Sant’Oronzo, e ai primi di novembre, agli scontri della Polizia sia con i “rossi”, sia con i “neri”, che furono poi i due episodi in cui a Lecce gli anni di piombo toccano i loro punti più alti.
Rievocarne motivi e personaggi, magari cercarne di capire il senso, interesserà non soltanto quelli che ne furono protagonisti, ma – credo – se non altro per un confronto ideale – un po’ tutti quanti, anche se forse tutto questo, come nella canzone di Vasco, “un senso non ce l’ha”.
Ecco, per prima cosa, alla faccia di tutti i discorsi di adesso sui presunti cambiamenti climatici che sarebbero nel frattempo sopravvenuti, io quell’estate di trent’anni fa me la ricordo caldissima, afosa, lunga, lunghissima; poi così tenera, così violenta, come il verso di Jacques Prevert.
Gli anni di piombo impazzavano.
Nell’autunno del 1971, c’era stata la prima guerriglia urbana: varie scaramucce in diversi luoghi la mattina, poi ore di rincorse e inseguimenti fra gruppetti contrapposti, infine lo scontro campale, il mezzogiorno, se non di fuoco ( gli spari sarebbero arrivati dopo qualche anno ) certo di botte da orbi, con arresti e feriti. “Mezz’ora di battaglia a Lecce fra comunisti e fascisti”, titolò in grande, apertura di prima pagina, proprio “La Gazzetta del Mezzogiorno” - la giornalisticamente già vivace, attenta e fervida “Gazzetta” di quel periodo - il giorno dopo, e fu così che cominciarono a Lecce gli anni di piombo.
Sfruttando l’onda lunga del Sessantotto, la sinistra parlamentare ed extraparlamentare erano rimaste culturalmente e socialmente egemoni, padrone della situazione nelle scuole e tentarono di assumere il controllo totale dell’opinione pubblica giovanile.
Il primo loro obiettivo era negare l’agibilità politica a tutti quelli che non la pensavano come loro, tutti sbrigativamente liquidati come “fascisti” e tutti fisicamente, accuratamente, perseguitati, con accanimento, con lucida profezia. Questa la sostanza.
Il Movimento sociale italiano, dal canto suo, aveva registrato uno straordinario successo elettorale nel 1972, cui però non corrispondeva una altrettanto rilevante presenza culturale e politica.
A livello giovanile, non si andava al di là dell’attivismo fine a sé stesso, col risultato che le organizzazioni ufficiali del partito persero rapidamente consistenza e vigore, senza che ciò dispiacesse più di tanto ai vertici, tutti impegnati ad accreditare un’immagine quanto più possibile moderata e rassicurante.
Comunque il Msi negli anni seguenti perse non soltanto consensi, ma pure il grosso della classe dirigente, passata armi e bagagli con Democrazia nazionale, ai tempi della scissione del 1976.
Così prese in mano le redini del partito l’avvocato Giorgio Bortone. L’Adriana Poli, che era già diventata sua moglie, faceva la giovane ricercatrice all’università. Fra i giovani, a parte Mario De Cristofaro, presenza storica di quaranta anni di destra a Lecce, quasi tutti gli altri erano diventati o cani sciolti, ognuno per sè, o pecore matte, in improbabili organizzazioni, dai nomi altisonanti e strabilianti.
A parte i già reduci delle discolte “Avanguardia nazionale” e “Ordine nuovo”, “Europa Occidente”, per esempio, si chiamava il gruppuscolo di Amedeo Calogiuri. Fas, “Fronte anticomunista studentesco”, i ragazzi ( come Gianfranco Morciano, trasferito al Sud dai genitori, dopo essere stato gravemente ferito a Monza ) che aveva raccolto intorno a sé Antonio Cremonesini, i quali poi fondarono il Mas, “Movimento Autonomia Sociale”; fra di essi si trovarono e si misero in luce per le capacità organizzative Valerio Melcore e per l’attivismo esasperato Angelo Scardia.
Poi, coltivato dagli universitari reduci dalle esperienze fatte a Perugia, coi gruppi “Ezra Pound” e a Chieti e Pescara, col professor Giacinto Auriti e le sue teorie economiche, in primo luogo da Gianni Rizzo, c’era “Impegno studentesco”, che seppe conquistarsi un buon seguito nei due licei classici e nei due licei scientifici.
Ricordo Alfredo Mantovano – ebbene sì: c’è un’organizzazione extraparlamentare anche nel suo passato! E sorrido... – lamentarsi perché “i compagni” ogni mattina gli strappavano i manifesti che metteva davanti alla sua scuola e tentavano di picchiarlo.
Ricordo Antonello Gustapane – adesso attivissimo pubblico ministero della procura di Bologna – sfrecciare, rey-ban d’ordinanza, col suo motorino da questa a quella scuola, da una riunione all’altra.
La città, manco fosse la Berlino di allora, pur senza muri era divisa a zone e gli uni non potevano andare in quella degli altri, se non a costo dell’incolumità fisica. La nostra, era piazza Sant’Oronzo, davanti e di fronte all’Alvino, dove c’era sempre qualcuno, a qualsiasi ora del giorno e della notte, a cominciare dai più adulti e vaccinati Giandomenico Casalino, Enrico Gabellone, Franco D’Amore, Ernesto Ciminiello, Massimo Stefani, Claudio Danisi, Elio Taurino, Giancarlo Magari, Fabio Campobasso, Gino Ratano e tanti altri, dei quali adesso mi sfugge il nome. La loro, piazza Mazzini e Palazzo Casto.
Anche i comunisti erano divisi in tante sigle, gruppi e gruppuscoli. Molti ex liceali, prima extraparlamentari, erano entrati nel Pci, ma non per questo si erano calmati, anzi, erano quelli che aizzavano il fuoco, che tiravano il sasso e poi nascondevano la mano: mentre gli extraparlamentari non solo metaforicamente tiravano pietre, biglie d’acciaio e poi bottiglie molotov, spalleggiati da certi settori di originaria provenienza cattolica, che per farsi accettare, vai a capire, alla faccia del Vangelo, sparavano più degli altri. Insomma, divisioni di sigle a parte, stavano tutti insieme, appassionatamente e, per dirla con una battutaccia, avevano già fatto il partito...antidemocratico.
Erano in mille, giovani e forti, sì, ma non certo eroici, quelli che tentarono di assaltare i cittadini leccesi presenti in piazza Sant’Oronzo il 3 giugno 1977 a sentire il comizio di Pino Rauti, venuto più che altro a rincuorare le fila interne missine, provate dalle divisioni e dalle vicessitudini. Provocarono disordini, alcuni arrivarono quasi alla fine di via Trinchese e spararono colpi di pistola, che riecheggiarono nitidamente nella vicinissima piazza. “State calmi! State calmi!” - esortò ammirevolmente dal palco Pino Rauti - “Non reagiamo alle provocazioni!”e tutti in corteo di ritorno nella vicina Federazione, tutti, o quasi, perché altri non ascoltarono l’esortazione del palco e cercarono di vendicare subito l’affronto subito, con una specie di spedizione punitiva, così, tanto per calmare le acque...
Partirono verso piazza Mazzini, dove gli extraparlamentari di sinistra nel frattempo avevano attaccato e semidistrutto il “Baobab”, leggendario bar sotto la galleria; furono accolti dalla Polizia con un nutrito lancio di lacrimogeni ad altezza d’uomo; ciò nonostante, si registrarono diversi scontri violenti e alcuni feriti.
Poi, ci fu un’esperienza memorabile: campo Hobbit, il primo raduno della gioventù nazionale, che si tenne a Montesarchio, in provincia di Benevento, l’11 e 12 giugno 1977.
Imparammo a fare politica in modo nuovo, contemporaneo, con le organizzazioni parallele; l’attualizzazione delle tradizioni; l’attenzione, lo studio, il dialogo nei confronti dei “nemici”; l’importanza e l’uso dei mass – media vecchi e nuovi; la musica; la grafica; l’ecologia e tante altre cose belle e importanti; così importanti, da lasciare indelebile in tutti coloro che vi parteciparono come un marchio, il crisma e il carisma, nell’affermazione un’identità solare e creativa destinata a durare per sempre.
Io c’ero.
Da Lecce, dopo tanti giri, erano arrivati anche Valerio Melcore e Angelo Scardia, già all’epoca inseparabili; si separarono la notte, quando Valerio dormì nella macchina parcheggiata lì vicino e invece Angelo, insieme ad altri due compagni di viaggio, prese una camera nell’albergo del paese, per quanto nessuno di loro avesse i soldi per pagare il conto all’indomani: e l’oste, previdente. li mandò al terzo piano per evitare che scappassero senza lasciare i documenti, come, infatti, avevano progettato, e mandò poi la fattura a casa dei genitori.
Nei giorni seguenti, anche per effetto del mutato e favorevole clima nazionale, a Lecce si decise di serrare le fila: tutti dentro al partito, grandi e piccoli, giovani, meno giovani e vecchi, chi ne era uscito e chi stava un po’ dentro e un po’ fuori, ora tutti dentro il Msi. Su disposizione di Giorgio Almirante, Mario De Cristofaro decise di ricostituire il “Fronte della gioventù” e ne affidò la guida a Valerio Melcore.
In pochi mesi diventò il Fronte della gioventù più bello d’Italia.
Gianfranco Fini lo additava ad esempio a quelli delle altre province italiane e venne personalmente almeno tre volte, la prima appena nominato segretario nazionale giovanile, a condividerne le iniziative.
Fu un’esperienza breve, un paio di anni trepidi e sapidi, ma intensa, per qualità, quantità, entusiasmo, intelligenza e spirito di comunità umana e militanza politica. Aperto ai più grandi, che ci frequentavano portando la loro esperienza.
Aperto alle donne – beh, allora una novità per i nostri ambienti maschilisti – belle quanto brave e ricordo la mitica Ronzina De Leo; ma pure la Magda, la Fiorella, Valeria Falco, Annamaria e Cristina Salvi, la mascotte.
Oh quanti nomi! Solo alcuni di quelli di Lecce: “Poppi” Massimo Ruggie, Rudi Russo, Donato Danisi, Maurizio Ancora, Toti Calò, il neo assessore Giuseppe Ripa, che veniva in compagnia di Gianfranco Papadia. E ometto in pieno quelli che arrivavano della provincia, chè ci vorrebbe un libro intero: scusatemi ragazzi!
Ma soprattutto aperto alle sfide dell’attualità.
Certo, c’era chi ( ma ora è meglio non dire chi fosse! Diciamo che allora noi lo chiamavamo ironicamente “Terzo Reich” ) recitava in perfetto tedesco originale i discorsi integrali di Adolf Hitler, per mal concepita reazione alle persecuzioni ideologiche e fisiche di allora o chi, sempre per lo stesso motivo, favoleggiava di “bombe a mano, carezze di pugnal”, ma erano casi unici, umani e non politici.
“A stu livellu quai!” – li rimproverava ogni volta Valerio, e bestemmiava.
La realtà era fatta di iniziative politiche d’avanguardia ( il già conquistato voto ai diciottenni; l’ abolizione della leva militare; la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese; la lotta alla corruzione e alle inefficienze; la giustizia sociale ) che facevano breccia e attiravano consenso.
Poi, beh, è chiaro, il personale era politico.
C’erano le feste, le letture collettive di libri ( già, meglio riempirsi le teste, che spaccarsele, pensava Valerio ), le audizioni di musica, pure le sedute spiritiche, a opera di un artista, del quale non so se posso fare il nome, che era pure medium straordinario.
Una vecchia, scassatissima “124” gialla, comprata con una colletta, serviva quale mezzo di trasporto operativo quando, dal partito, da qualche iscritto, arrivavano i soldi della benzina; con un ciclostile difettoso e un megafono gracchiante, erano i potenti mezzi messici a disposizione.
Questi ragazzi di vent’anni, che facevano le discoteche e i cineforum, leggevano i libri, diffondevano le riviste impegnate, attaccavano i manifesti sui muri e distribuivano i volantini e non ne potevano più di un regime bloccato da trent’anni sulla corruzione politica, erano “i fascisti”.
In particolare, per impedire una mostra editoriale e grafica, fissata per il 12 novembre 1977, che fra l’altro aveva per argomento il dissenso nell’allora Urss, per effetto di quei meccanismi prima evocati la sinistra parlamentare ed extraparlamentare si mobilitò tutta quanta. I
l meccanismo era rodato, a colpi di comunicati e dichiarazioni: “I fascisti non devono parlare”, “un pericolo per la democrazia” e robe simili; seguivano le minacce: bisogna impedire con la forza il raduno fascista; e quindi il questore e il prefetto prendevano atto della tensione montata ad arte e vietavano la manifestazione “per motivi di ordine pubblico”.
Andò su per giù allo stesso modo anche nell’imminenza di “quel 12 novembre”. 1977, oh sì, il punto più alto della violenza politica a Lecce.
“Quel 12 novembre” è pure il titolo di un saggio, credo ormai pressoché introvabile, che uscì mesi dopo, per i tipi della “Tribuna del Salento e per la penna di Lino De Matteis: a parte la tesi politica di fondo, sfacciatamente di parte ( ma tutto era di parte allora, anche le scarpe che mettevi ai piedi ) e completamente sballata, era però – me lo ricordo – un bell’esempio di giornalismo, un “instant book”, come si chiamerebbe adesso nel gergo editoriale.
A proposito di giornali, noi avevamo vicino soltanto la “Voce del Sud”, il settimanale dell’indimenticabile Ernesto Alvino, che per me - come per Alfredo Mantovano e Mario Bozzi Sentieri, per citare soltanto i miei coetanei - fu Maestro di giornalismo e di vita.
Comunque i fatti, al netto di propaganda e retorica, andarono così.
Nel corso di un’affollatissima e tesissima assemblea del nostro “Fronte della gioventù, su al partito, il pomeriggio prima, fu deciso che, a differenza delle altre volte, quella volta non si doveva subire passivamente e che avremmo dunque tenuto la nostra manifestazione lo stesso, anche contro i divieti della Polizia e le minacce dei comunisti; pure, si badi bene, nonostante gli inviti alla calma del Partito stesso: ma il “Fronte” aveva per statuto la propria autonomia e ne andava orgoglioso.
Decisione quasi unanime: unico parere contrario, il mio, del tutto inutile e buono solamente ad attirarmi le solite accuse, che già sapevo, di moderatismo.
Ma era facile prevedere che all’indomani sarebbero successi casini di proporzioni bibliche, e così fu.
Fece caldo, sì, un sole ancora estivo, pieno, arzillo, prepotente.
In piazza Sant’Oronzo fallirono tutti i tentativi di mediazione e i Poliziotti impedirono con la forza l’esposizione dei cartelloni della mostra. Sollevarono di peso quelli che si erano seduti per terra e che reggevano per protesta il giornale del “Fronte” di allora, che si chiamava “Dissenso”. Cercarono di disperdere in maniera tutto sommato accettabile i numerosissimi presenti.
Ad un certo punto, senza un vero motivo concreto, tanto per fare qualcosa, quasi come una valvola di sfogo della tensione, ci mettemmo in corteo su via Cavallotti. Prima che arrivassimo in piazza Mazzini, anche per evitare che fossimo assaliti in blocco come eravamo dai comunisti, la Polizia caricò il nostro corteo, naturalmente non autorizzato, disperdendolo alla meglio.
Da altre parti, infatti, la Celere si scontrò a più riprese con gli autonomi e brigatisti di sinistra, che nel frattempo erano usciti in forze da palazzo Casto e cercavano di raggiungerci, con le loro bottiglie molotov e le loro P38. Ci furono scene di inaudita e, almeno per Lecce, inedita violenza. La sede del sindacato Cisnal in piazzeta Castromediano fu data alle fiamme a colpi di molotov, alcune auto furono incendiate e vi fu uno scontro a fuoco tra comunisti e Polizia.
Fra i nostri, arrestarono, senza ragione - almeno per quella volta non c’entrava proprio nulla, visto che era lì in tutta tranquillità, da dirigente del partito che sorvegliava i ragazzi del Fronte - Mario De Cristofaro, e Manolo Russo, che era accanto a lui, perché cercò di difenderlo.
Valerio Melcore – e non solo lui... – passò qualche notte da latitante, in attesa di un mandato di cattura che invece poi non arrivò: fu denunciato a piede libero e li usò tutti e due per nascondersi.
Non mi ricordo altro, se non due immagini, che sono poi le immagini emblematiche, la icastica rappresentazione del mio ‘77.
Valerio Melcore paonazzo che discute con un terreo in volto commissario Pasquale Lacquaniti: un dialogo surreale quanto concitato, un teatro dell’assurdo di Jonesco, ora nella mia mente comico, mentre fu in quel momento drammaticissimo.
Poi, la corsa dalle parti di piazza Mazzini, a piccoli gruppi, verso la Federazione, cioè la salvezza, sia dai poliziotti con i lacrimogeni e i manganelli, sia dai comunisti, con le molotov e le P38: dopo il mercato coperto, Angelo Scardia dritto in mezzo al viale, che, all’arrivo di corsa di questo o quell’altro gruppetto, interrompeva il traffico, ad ampi gesti, faceva passare i fuggiaschi che si mettevano così in salvo, poi faceva ripartire le macchine, e così via, manco fosse un vigile urbano, calmo, serafico, tranquillo e se qualche automobilista osava chiedere informazioni su che stesse accadendo, o pure timidamente protestare, gli bastavano uno sguardo per zittirlo e poche parole: “...L’ira te Diu osce... Hannu zeccatu lu Mariu”.
Giuseppe Puppo
 
* Giuseppe Puppo, 49 anni, giornalista e scrittore nato a Lecce, vive e lavora a Torino. Ha collaborato a radio e televisioni private, agenzie di stampa, quotidiani, settimanali, mensili. Ha scritto cinque saggi

Graziano ha detto...

Vi voglio donare quest'altra descrizione di quei "nostri Formidabili" anni
E' sempre di Giuseppe Puppo.
Buona lettura
Graziano De Tuglie

Un paginone celebrativo di Alessandra Longo su “Repubblica” di venerdì scorso, con le opportune rievocazioni, integrato oggi da una precisazione di Marco Tarchi, evidentemente piccato per non essere stato interpellato sull’argomento e quindi ospitato per compensazione.

In quelle settimane, Marco Tarchi, intraprendente universitario fiorentino, esponente di spicco della corrente rautiana, era stato indicato dai centri provinciali come prossimo leader dell’organizzazione giovanile del “Fronte della gioventù” a grande maggioranza; per statuto, però, la nomina spettava al segretario nazionale del Msi, Giorgio Almirante, che invece, poche settimane dopo, gli preferì un garbatissimo, quanto anonimo e sconosciuto ai più bolognese emigrato a Roma, tal Gianfranco Fini.

Oggi Marco Tarchi, che, piccato per quell’ingiusta esclusione, dopo poco lasciò il partito ( sempre piccato, eh? ) fa il baronetto universitario, l’intellettuale d’elite. Gianfranco Fini, beh...Fa Gianfranco Fini.



Un convegno lo scorso fine settimana, a Benevento, in memoria di Generoso Simeone, l’organizzatore, nel frattempo scomparso, con la partecipazione di Pino Rauti e tanti altri esponenti politici, ovviamente con la brillante assenza di tutti quelli nel frattempo diventati di Alleanza nazionale.


Un dibattito che in questi giorni rimbalza su internet da un sito all’altro.


Così la destra italiana ha finora celebrato il trentennale del suo momento più bello e intenso, dal punto di vista creativo: il “primo raduno della gioventù nazionale”, svoltosi a Montesarchio, in provincia di Benevento, l’11 e 12 giugno 1977, passato alla storia con nome di Campo Hobbit.

Ce ne furono altri due, poi, negli anni seguenti( più frequentati e meglio strutturati, sui monti dell’ Abruzzo, in provincia dell’Aquila, nel 1978 e nel 1980), ma indubbiamente il primo fu quello storico e l’attributo non sembri esagerato: fu il primo che ruppe il ghiaccio, che creò il fenomeno, che aprì e segnò una nuova fase politica, moderna e anzi contemporanea, per la destra italiana.

Grazie a Pino Rauti, imparammo a fare politica in modo nuovo, contemporaneo, con le organizzazioni parallele; l’attualizzazione delle tradizioni; l’attenzione, lo studio, il dialogo nei confronti dei “nemici”; l’importanza e l’uso dei mass – media vecchi e nuovi; la musica; la grafica; l’ecologia e tante altre cose belle e importanti.


Gli altri due – io partecipai a tutti e tre – furono uno sviluppo, un’articolazione e un’affermazione del discorso: ma quello storico, la data - cardine, il simbolo, fu Montesarchio, l’11 e 12 giugno 2007. Così importante, da lasciare indelebile in tutti coloro che vi parteciparono come un marchio, il crisma e il carisma, nell’affermazione un’identità solare e creativa destinata a durare per sempre.


E io c’ero! Sì sì io ci sono stato, a Montesarchio, c’ero anch’io!

Dio, sono passati trent’anni? Mah... Ma sì, infatti non mi ricordo bene proprio niente; certo, ho presente il filo rosso, il motivo di fondo delle ragioni dell’importanza, chiaro e preciso, ma, quanto al resto, ai particolari, adesso rivedo soltanto squarci, scene isolate, momenti.


All’epoca mi trovavo da qualche mese a Napoli, ufficialmente per studiare all’università, anche se poi facevo tutto, tranne che studiare: pratica giornalistica, sperando in entrare al quotidiano “Roma” di Napoli, che nel frattempo però aveva chiuso; animatore di una radio libera, radio Sud 95; disk – jockey e quant’altro.

Partii il pomeriggio del giorno prima, venerdì, con i camerati del circolo “Controcorrente” di Napoli che frequentavo abitualmente: il mitico Pietro Golia, Gabriele Marzocco, Giuseppe Marro, un certo Beniamino, calabrese, del quale ora non so più il cognome e altri.

Andammo in treno, un trenino da far-west, che fermava in tutte le stazioni e aspettava sempre chissà che prima di ripartire. L’unica volta che ripartì subito fu, a qualche chilometro dalla destinazione, proprio quella in cui scendemmo a bere alla fontanina sui binari, e ci lasciò in due o tre in una sperduta stazione - fantasma nelle valli del Sannio.

Così, arrivammo a Montesarchio in autostop qualche ora dopo gli altri, che trovammo già a montare le tende.


In realtà, il Campo Hobbit di Tolkien, di narrativa e cinema, tranne appunto il nome, non aveva niente: più prosaicamente si trattava del campo di calcio del paese, fuori il centro abitato, sulla strada che portava verso la provincia di Avellino. Per di più, un campo di calcio senza erba, tutto pieno di pietre, recintato da una rete, opportunamente rinforzata da lamiere.

Mi ricordo che Generoso Simeone, l’organizzatore del posto, ci informò della presenza dei paraggi di nugoli di “compagni”, gli extraparlamentari di sinistra, decisi a impedire con la forza – e ti pareva - “il raduno fascista” e diede disposizioni sui comportamenti da adottare in caso di “attacco”. Non c’erano pistole fra di noi, sia ben chiaro, né spranghe, né bastoni: le nostre uniche armi erano l’intelligenza, i cartelloni, le ragioni della testa e quelle del cuore.

Ma questo era il clima comunque e sempre di violenza dell’epoca ( eravamo in pieni anni di piombo ): un po’ perché c’ero abituato e avevo imparato a vincere la tensione e la paura, la cosa mi lasciò abbastanza indifferente; poi, nella fattispecie, in mezzo a quelli di “Controcorrente” di Napoli, rotti a tante esperienze tipiche di quegli anni, mi sentivo sicuro: me la sarei cavata ancora una volta, anche se ci avesse attaccato l’Armata rossa di Stalin.


Se quella notte e l’altra seguente non riuscii a chiudere occhio non fu certo per motivi di paura fisica, di scontri, o agguati notturni: fu perché su quel campo di calcio c’erano pietre dappertutto, che si stagliavano sotto la tenda, sotto il sacco a pelo, in qualunque posizione ti girassi e rigirassi e si conficcavano in corpo, impedendoti di prendere sonno. Non è un caso che, dopo quelle volte, sviluppai una consapevole idiosincrasia per qualunque tipo di campeggio.


Ora, non mi ricordo molto altro e mi dispiace: delle discussioni politiche, i dibattiti, per esempio, niente di niente. Tutto improvvisato: scambi di racconti di esperienze e numeri di telefono, racconti di iniziative, confronti, lasciati agli incontri casuali, in mezzo al campo, fra i partecipanti provenienti da tutta Italia, in pieno spirito di improvvisazione e di anarchia tipici dell’ambiente. Nelle altre due edizioni, negli anni seguenti, le cose migliorarono molto, dal punto di vista organizzativo e logistico: eppure, non furono così belli come quello, il primo, una magia, una pazzia, una magica follia.


Per esempio, da Lecce, dopo tanti giri, erano arrivati anche Valerio Melcore e Angelo Scardia, già all’epoca inseparabili; si separarono la notte, quando Valerio dormì nella macchina parcheggiata lì vicino e invece Angelo, insieme ad altri due compagni di viaggio, prese una camera nell’albergo del paese, per quanto nessuno di loro avesse i soldi per pagare il conto all’indomani: e l’oste previdente li mandò al terzo piano per evitare che scappassero senza lasciare i documenti, come avevano progettato e mandò poi la fattura a casa dei genitori.


Per dormire, ho detto prima. Per mangiare, ci arrangiammo tutti, fra provviste portate al sacco e occasionali, estemporanei approvvigionamenti di viveri: per meglio dire, magiammo pochissimo e niente proprio. In tutto, dentro, eravamo un migliaio, non di più: fuori, schierati per tutta la lunghezza del rettangolo, lungo la strada, i poliziotti erano almeno il doppio.


Sembrava peggio di un campo di concentramento: i servizi igienici improvvisati, non un bar, un punto di ristoro.

Poi, faceva caldo, ma caldo proprio, un caldo secco, forte, prepotente, ai primi di giugno, di trent’anni fa, in quel paesino del profondo Sud che stento si trovava sulle carte geografiche ( ma quale clima impazzito dei discorsi di adesso! ) e il sole batteva impietoso, senza soluzione di continuità, dall’alba al tramonto.

Eppure il clima che si respirava – questo me lo ricordo bene! – era di una dolce primavera, di un risveglio, di un aprirsi alla vita da protagonisti.

Nessuno di quei mille del primo Campo Hobbit poteva neppure lontanamente immaginare cosa sarebbe avvenuto in futuro da un punto di vista politico: sopravvivere fisicamente, non finire in galera per qualche resistenza a pubblico ufficiale, sembravano i migliori risultati possibili.

Nessuno pensava a carriere, a poltrone, a incarichi a consulenze e cose simili. C’era passione, c’era interesse ideale e non materiale. C’era creatività, c’era voglia di uscire dal ghetto e conquistare il mondo.

C’erano ideali.

C’era il sole, c’era la luce e bastava la speranza, a farla diventare certezza: sapevamo che “il domani appartiene a noi”. Esattamente questo.

Poi, di altro, per quanto mi sforzi, proprio non ricordo adesso.

Le canzoni, sì, le esibizioni canore di singoli e gruppi, che si succedevano sul palco.

I cartelloni, gli striscioni esposti, i murales.

Le tante ragazze, bellissime e bravissime, principesse e guerriere.

Le croci celtiche.


Poi, mi ricordo soltanto che tornai a Napoli sempre in treno il pomeriggio della domenica. Arrivai nella pensione che mi ospitava a sera. Mi vedo ora uno scorcio di periferia napoletana di palazzoni grigi e cielo plumbeo sgangherato al tramonto.

Avevo fame e sete di proporzioni bibliche, ma ancora di più avevo sonno, talmente sonno che, appena entrato in stanza, “mangerò domani a pranzo”, pensai, e mi buttai sul letto così come ero.

Mi svegliai invece all’ora di cena del giorno dopo. Avevo dormito per quasi venti ore di fila senza muovermi di un centimetro! Una specie di record ineguagliato e ineguagliabile...E ricordo come fu buona quella cena consumata subito dopo, tutto contento della pazzia che avevo appena finito di fare, in quel fine settimana surreale, felice, sicuro, convinto, appassionato come ero, alla vicina mensa universitaria di via Mezzocannone, e quella sensazione di pienezza che mi veniva mangiando, per fame, ma per fame brutta, per fame vera, dopo aver investito in questo le mie ultime cinquecento lire.

Graziano ha detto...

"Grazie a Pino Rauti, imparammo a fare politica in modo nuovo, contemporaneo, con le organizzazioni parallele; l’attualizzazione delle tradizioni; l’attenzione, lo studio, il dialogo nei confronti dei “nemici”; l’importanza e l’uso dei mass – media vecchi e nuovi; la musica; la grafica; l’ecologia e tante altre cose belle e importanti.


Gli altri due – io partecipai a tutti e tre – furono uno sviluppo, un’articolazione e un’affermazione del discorso: ma quello storico, la data - cardine, il simbolo, fu Montesarchio, l’11 e 12 giugno 2007. Così importante, da lasciare indelebile in tutti coloro che vi parteciparono come un marchio, il crisma e il carisma, nell’affermazione un’identità solare e creativa destinata a durare per sempre."
Quanta verità in queste parole, quale potenza evocativa.
Quella visione, quelle nuove strade per raggiungere le "linee di Vetta" ridiedere linfa ad un mondo sfiatato pronto all'estinzione, un mondo che si crogiolava in quello che era passato senza guardare oltre alla punta del proprio naso, che si adagiava sull'anticomunismo senza preoccuparsi minimamente del sudolo pericolo rappresentato dai democristiani con i quali la parte culturalmente più pigra del MSI voleva raggiungere un accordo per ritagliarsi una fettina di potere.
Stiamo parlando di trenta anni addietro e sembra cronaca di oggi.
Si aprì, con quelle idee, lo spiraglio per un futuro migliore e coinvolgente che consentì di superare con slancio gli aani bui del terrorismo e della persecuzione sanguinosa, della discriminazione odiosa condotta da oscuri piccoli burocrati di provata fede democristiana che dovevano doimostrare di essere più realisti del Re in persona.
E' stata un'epopea esaltante, forti di uno spirito che ci ha fatto resistere a tutte le angherie e le sopraffazioni.
Ha ragione Lorenzo Catamo, suo padre Antonio è stato sempre da me considerato come uno dei miei maestri, che misera fine per una grande Storia.
Graziano De Tuglie

Anonimo ha detto...

Oggi,22 del mese di maggio,ricorre il ventennale della morte di Giorgio Almirante.
Un uomo che non rinnegò il suo passato ma,dalle radici profonde,seppe trarre linfa per costruire il futuro.
Onore e gloria al camerata Giorgio Almirante!
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

sono passati 20 anni dalla Sua scomparsa,ma il suo pensiero e' rimasto e rimarra' sempre nei nostri cuori...onore al piu' grande Uomo di Destra....un saluto a GIORGIO ALMIRANTE .....tuglie cresce.......

Anonimo ha detto...

Il circolo di Alleanza Nazionale di Tuglie ha chiesto all'amministrazione locale di intitolare una strada a Giorgio Almirante.
Di seguito vi ripropongo la lettera con la richiesta:

Egregio Signor Sindaco,

facendo seguito ad un’altra richiesta simile già inviata dai ragazzi del Fronte della Gioventù alcuni anni or sono, alla quale purtroppo non abbiamo mai ricevuto alcuna risposta, vorremmo attirare la Sua attenzione su una figura politica ormai scomparsa, approfittando proprio del fatto che in questo anno decorrerà il ventesimo anniversario della sua morte.
Il 22 maggio 1988, infatti, si spegne nella clinica di Villa del Rosario a Roma Giorgio Almirante.
Le esequie dello storico segretario del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale furono trasmesse in diretta radiotelevisiva sulla rete pubblica. Almirante ricevette l'ultimo saluto alla camera ardente allestita presso la sede del Partito in Via della Scrofa dalle più alte cariche istituzionali e da tutti i più importanti leader politici italiani oltre a migliaia di persone da tutta Italia. Fu riconosciuto da tutta la Stampa italiana ed estera come il padre della Destra Italiana del dopoguerra.

"Non so in quale misura la politica in Italia sia teatro. Vorrei che lo fosse; e se per caso qualche volta lo è, vorrei che lo fosse molto di più.
Vorrei che lo fosse come al bel tempo dei "guitti": bauli e treni; viaggiare incessante; mutar di pubblico restando se stessi; dipendere dal consenso ma non piegarsi al capriccio; determinare la moda ma non subirla; gustare l'applauso ma non sgomentarsi per il fischio o lo zittio; custodire le cose belle del passato ma aprirsi ad ogni novità capace di arricchire lo spirito; e, soprattutto, recitare per gli altri e non per se ascoltarsi recitando come se la propria voce muovesse dalla platea e dal loggione e ci venisse incontro e ci dicesse che siamo interpreti della commedia umana del nostro tempo".

Sono parole che Giorgio Almirante ha lasciato nel primo capitolo della "Autobiografia di un fucilatore". Sono il ritratto della sua vita, del suo stile. La sua è stata davvero una grandiosa interpretazione della commedia umana di questo tempo. Tempo difficile, nel quale hanno convissuto presunte certezze insieme con vigorose speranze, culto della conservazione con, come era solito dire, "nostalgia dell'avvenire", pratica della corruzione e amore della pulizia. Lui, Giorgio Almirante, lo ha vissuto per intero questo tempo e sempre dalla parte giusta.
Cercava il consenso e non lo subiva perché, ad esempio, non ha mai incitato alla vendetta anche quando la folla amica la pretendeva. Anticonformista, non ha mai ceduto alla moda ma ha rappresentato l’antimoda. Uomo di lotta dura ancorché leale, non ha mai avuto paura delle critiche che lo hanno assediato con spietatezza per tutta la vita; anzi, le ha affrontate a viso aperto imponendo agli avversari il rispetto che gli dovevano e che vennero a testimoniare per l'estremo saluto tutti, nessuno escluso.
Intellettualmente curioso, era apertissimo al nuovo senza però recidere le radici del passato, quelle buone. Sopratutto un infinito disinteresse. Pensava, parlava, agiva per gli altri, mai per sé. Aveva un grande amore per la sua gente, un amore che lo ha portato a viaggiare, ad arrivare ovunque, ad incontrare tutti, a parlare con tutti, ad ascoltare tutti. È stato l'uomo politico italiano che ha conosciuto il maggior numero di italiani e che è passato, per incontrarli tutti, nel maggior numero di città, paesi, villaggi, borghi. Il suo motore era l'amore per gli italiani. Chi ha avuto modo di stargli accanto sa che egli non ha mai pensato in termini di odio. Mai. Ed anche l'ultima delle sue creature politiche, il progetto di riforma della Costituzione, scaturiva da questa voglia di rifare l'Italia amandola: l'adorabile Italia...

Volle celebrare un Congresso nazionale, il dodicesimo, a Napoli il 5/6/7 ottobre 1979. E volle intitolarlo appunto alla Nuova Repubblica, cioè al progetto di riforma del sistema. Precedette tutti, venne prima di tutti, prima della Commissione Bozzi e, poi, della Commissione lotti. E continuò su questa strada con il Convegno di Amalfi e ì due di Roma, quando con il Movimento sociale si confrontarono su queste questioni, ancora tabù, coraggiosi esponenti di altri partiti, costituzionalisti, dirigenti sindacali e rappresentanti dell'imprenditoria pubblica e privata. Seppe cioè raccogliere e interpretare l'ansia del nuovo che già da allora attraversava l'Italia: lo fece con un tempismo e una lucidità irripetibili. Impose il dibattito, il ragionamento anche a chi era refrattario verso ogni rinnovamento istituzionale. Altro che nostalgia! È stato, questo della Nuova Repubblica, il suo contributo finale, forse il più alto, a questo Paese al quale ha dedicato tutta la vita. La vita di un grande italiano: Giorgio Almirante, l’uomo che immaginò il futuro.

Anonimo ha detto...

degli anni 70 ho ricordi intermittenti, anzi, a volte, più che di ricordi veri e propri si tratta di sensazioni.
Alcune delle quali talmente forti che, nonostante i decenni che ci dividono da quegli anni, ogni volta che ci penso ne sento ancora vivide le emozioni, intatte come allora.Ricordo le difficoltà di mio padre, per discorsi rubati in casa, ad essere assunto presso il Comune prima e, di svolgere il proprio lavoro poi.
Ricordo una certa Adriana con una macchina scassata ed un certo Mario che si diceva gli avessero sparato e di quando aveva avuto un gravissimo incidente.
Ricordo che dopo la strage di piazza fontana nel mio paese, fu organizzato, dai politici locali, un mega corteo, a cui per caso assistetti con un amichetta, figlia di democristiani, in cui si urlava lo slogan "fascisti carogne tornate nelle fogne".
Mentre il corteo sfilava ed urlava, pensavo che ce l'avessero con mio padre, militante di destra, pensavo a lui e non riuscivo ad associargli l'aggettivo carogna, mi sembrava che tutti gli sguardi fossero rivolti verso di me, in quanto figlia di carogna, mi sentivo umiliata e mi vergognavo di fronte a tutta quella gente, ma avevo anche rabbia, avrei tanto voluto trattenere le lacrime e, non ricordo se tutti i miei sforzi per farlo ebbero successo ma, ricordo perfettamente che rimasi lì immobile, aspettando che il corteo sfilasse, a testa alta, guardandoli tutti uno per uno. Quell'episodio, per quanto insignificante, ha condizionato e condiziona ancora oggi la mia vita. Non so, ancora oggi, se la mia decisione di essere di destra, proviene dalla ribellione per l'avvertita ingiustizia subita,dalla decisione di schierarsi con chi, in quel momento, appariva debole e sopraffatto dalla violenza di quei democristiani, ma di sicuro so che in quel momento scelsi da che parte stare, forse solo per solidarietà a mio padre. Di sicuro so che ogni volta che lo ricordo mi attraversa una grande emozione, anche in questo momento. Questo contributo è poca cosa rispetto a quelli che avete inviato ma, è un punto di vista diverso di quegli anni, difficili anche per una bambina di cinque anni.
Oggi, la mia amica e suo padre, che sfilava in quel corteo, sono di A.N. e, già da alcuni anni sono elettori della mia famiglia.

Anonimo ha detto...

Questo forum è veramente fantastico. Qualche giorno fa ho lasciato un commento. Ero scettica sulla riuscita. Bravo Stamerra. Ti faccio i miei complimenti.
Vi continuerò a seguire, peccato che la mia età non mi consente di dare un contributo direttamente.
Ciao, Valentina.

Anonimo ha detto...

P.S. Mi piacerebbe leggere qualcosa di Tundo. Lui, con quell'aria da intellettuale politico, mi da l'idea di essere a conoscenza dell'intera storia del MSI a Lecce.
Valentina.

Anonimo ha detto...

Cara Valentina,
Roberto Tundo non ha l'aria di intellettuale politico, ma lo è proprio. D'altronde se ti procuri qualche copia de LA CONTEA, lo trovi fotografato con la sua vecchia montatura di occhiali con cui sembra proprio il fratello gemello del grande poeta e scrittore fascista francese Robert BRASILLACH (fucilato a Fresnes dai partigiani francesi al termine di un processo farsa nel febbraio 1945 per "collaborazionismo" ideologico, giacché "pensare e scrivere controcorrente" è sempre stato molto pericoloso).
Purtroppo Lui ama più scrivere volantini, redigere giornali, curare l'invio di e-mail convocazioni che partecipare ai forum sui blog; pertanto temo che non soddisferà le tue e nostre curiosità sulla storia del MSI salentino.
Forse, oltre che invocarlo sul blog bisognerà chiederglielo di persona, mettendolo in croce con questa "fame di storia locale e nazionale" che è scoppiata in noi dopo gli interventi dell'avv. Lorenzo Catamo.
Posso aggiungerti che ama più impegnarsi in prima persona, partecipare alle riunioni, essere fattivo che parlarsi addosso.
Quello che un comune mortale narra con 100 parole, Lui riesce ad esprimerlo con 50, anche 10.
Insomma, sulle capacità di sintesi, io e Lui siamo opposti, ma convergiamo sulle radici rautiane e sulle prospettive alemanniane all'interno di AN - Popolo della libertà.
Sperando di aver in qualche modo contribuito a soddisfare le tue domande, Ti saluto con simpatia

Massimo di Leverano

Anonimo ha detto...

PER FAVORE, NON FACCIAMO DI ALMIRANTE UN SANTINO AGIOGRAFICO!

E' un torto a Lui.
E' un torto alla storia.

Bisogna ricordare i meriti, ma anche i limiti.

E' evidente che PARCE SEPULTO.

E' evidente che ALMIRANTE al confronto con molti politici odierni resti un gigante!

Ma è anche evidente che ALMIRANTE ha legato il suo nome e il suo potere di Segretario a 2 brutte pagine del MSI-Dn che non vanno rimosse, ma meditate perché non abbiano più a ripetersi:

1) Nel Gennaio 1978 impose il ritiro delle firme della petizione contro l'ufficiale dei carabinieri che aveva sparato ad altezza d'uomo, colpendo ed uccidendo l'inerme nostro militante STEFANO RECCHIONI, il cui unico "torto" era di essersi recato alla sede MSI di Acca Larentia dopo che erano stati assassinati dalla "Volante Rossa" i missini Ciavatta e Bigonzetti.

2) Nel febbraio 1981 espulse il vicesegretario nazionale del Fronte della Gioventù Marco Tarchi per un articolo sul giornale satirico: La Voce della Fogna (un'intolleranza simile a quella di Massimo D'Alema quando nel 1999 da Presidente del Consiglio querelò Forattini per una vignetta satirica sulla lista Mitrohikin).

Due comportamenti che agevolarono (non mi sogno di dire che causarono) l'esodo di tantissimi giovani dalle organizzazioni giovanili missine verso formazioni extraparlamentari se non addirittura verso la lotta armata.

L'influenza che ciascuno di noi (soprattutto di quanti detengono molto potere) può esercitare sui militanti più giovani e più "genuini" è enorme, perciò bisogna avvertire sempre su stessi questa grande responsabilità ed evitare parole, gesti e comportamenti che possono provocare in loro sconforto e disorientamento.

Ci vuole molto poco per infiammare l'animo dei più piccoli e basta un niente per deluderli : un'attesa più lunga del previsto, una risposta non entusiasmante, l’insofferenza per il dialogo, la difficoltà pratica di far rispettare sempre e dovunque criteri meritocratici, ecc.

Pertanto, per volere veramente bene a GIORGIO e alla Destra Italiana dovremmo risparmiare a Lui e a Noi i fiumi di retorica che sgorgano in commemorazioni come queste e cercare di meditare meglio la Sua/nostra storia facendo tesoro delle fertili intuizioni e ammenda per le pagine meno esaltanti.

In tal modo Giorgio Almirante, Pino Romualdi e tutti i nostri indimenticabili maestri resteranno per davvero e sempre PRESENTI!


Francesco Martucci

Anonimo ha detto...

Caro Martucci,
essendo più anziano di te,ho avuto la fortuna di vivere,anche grazie alla continuità con mio padre,tutta la vicenda storica del MSI e,prima con Staiti di Cuddia poi con Rauti(congresso di Sorrento del 1987),sono stato spesso contrario alle posizioni di Giorgio Almirante.
Per esempio,non gli ho mai perdonato la scelta di Gianfranco Fini al posto di Marco Tarchi per mille motivi che non starò a ripetere.
Devo riconoscere,però,a Giorgio Almirante un grande merito:è vero ,voleva costruire una grande Destra anche con qualche annacquamento ideale,ma il suo sogno non aveva niente a che fare con la porcheria attuale.Perchè quella grande Destra avrebbe visto un MSI egemonico con un grande capo,che avrebbe raccolto intorno a sè tutte le scompaginate schiere della Destra italiana.
Non vi riuscì anche per il tradimento prezzolato di Democrazia Nazionale che,con supremo sprezzo del ridicolo e con offesa all'intelligenza altrui ,ora viene considerata la madre di AN.
Giorgio Almirante non avrebbe mai retto la coda a un Silvio Berlusconi,perchè era un uomo di grande cultura e di grande preparazione e non sarebbe corso a salvare la medaglietta come tanti suoi falsi epigoni attuali.
Ti devo confessare,caro Martucci,che,a parte l'errore mortifero della scelta di Gianfranco Fini,questi venti anni trascorsi mi hanno fatto rimpiangere Giorgio Almirante e me ne hanno rivalutato la figura.
Di fronte allo sfacelo attuale e senza ombra di retorica,ribadisco:
onore e gloria al camerata Giorgio Almirante!
Un saluto cameratesco
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

Pur non amando da MAI Fini, devo ammettere che, nonostante le sue pecche, ci ha portati per la terza volta al governo, abbiamo un sindaco di Roma, un presidente della Camera.
Risultati che fino a qualche anno fa erano impensabili.
Non abbiamo la prova che Almirante, nelle stesse condizioni, avrebbe avuto lo stesso risultato.
Si può concedere qualcosa ad un leader politico, in cambio di ciò?
Non è che chiediamo troppo quando non vogliamo perdere alcun pezzo di identità, nonostante i tempi siano mutati, ma nello stesso tempo vogliamo contare ed ottenere risultati?
Serena

Anonimo ha detto...

Cara Serena,
è una questione di punti di vista,come se tu per avere successo dovessi modificare del tutto i tuoi connotati,cambiare nome e cognome,paternità e maternità.
Se è questo che vuoi,va bene!
A me e a quelli della mia generazione(Fini compreso) Almirante aveva insegnato che dovevamo andare al governo con le nostre idee e senza cedere nulla della nostra identità.
Mi rendo conto che l'esperienza,ormai quindicennale di AN,è stata devastante;ma,se andare al governo significa arrendersi del tutto a Silvio Berlusconi e diventarne i valletti,ebbene ti lascio volentieri la soddisfazione.
Del resto,io e tanti come me chiedevamo solo di non perdere l'identità e non volevamo certamente far vincere la sinistra.
Ma non ci è stato concesso neanche questo!
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

Per l'avvocato
LORENZO CATAMO
(ed in qualche modo anche per Serena)


Caro CATAMO,
leggendo il tuo intervento mi sono reso conto di non aver ben evidenziato il mio passaggio sul paragone tra i politici odierni ed ALMIRANTE, ché al loro cospetto per me resta sempre un gigante.
Ribadire ciò, come condividere la tua esortazione a tributargli onori e gloria meritati, non contrasta però con la necessità di sottrarre Almirante dalla retorica della "nostalgia canaglia"(della serie "come era verde la mia valle") e dei "santini" unti di agiografia, per andare avanti, verso un ricordo a tutto tUndo (non riesco a scrivere tondo), che ci consenta di meditare sulle sue grandi intuizioni, MA ANCHE (giusto per accontetare Veltroni) sui suoi limiti ed errori.
Viceversa non ci misureremmo con ALMIRANTE tal e qual era, ma con un totem ritoccato, nè più nè meno come i vari Giorgio Bocca e gli altri partigiani a buon mercato hanno realizzato la favoletta della RESISTENZA tutta pura e senza macchia.

Ecco perché chiedo a me stesso e a tutti voi di meditare anche i suoi clamorosi errori sul Tevere, sulla Difesa della Razza (per i quali chiese scusa già in vita), su Acca Larentia, sulla raccolta di firme per la pena di morte (che avrebbe colpito soprattutto i nostri ragazzi ingiustamente accusati dei reati di strage) e sull'espulsione di Marco Tarchi.

Una meditazione che renderebbe pure più forte e credibile la proposta di Storace e di Alemanno di discutere quanto prima nel rinnovato consiglio comunale del Campidoglio l'intitolazione di una strada di Roma a GIORGIO ALMIRANTE.

Una proposta, tra l'altro, che ci aiuta a capire come ALEMANNO diventato sindaco di Roma o FINI diventato presidente della Camera (mercoledì presenterà in pompa magna i 5 volumi di raccolta completa dei discorsi di Almirante al Parlamento nelle edizioni prestigiose ed istituzionali della Camera) non hanno dimenticato ALMIRANTE, le radici gloriose missine che sono e restano alla base della destra italiana.

Probabilmente nè Alemanno, né Fini vogliono darti la soddisfazione di fare i valletti del re di Mediaset. D'altronde né il primo, né il secondo gli hanno mai rivolto il giuramento della Destra al congresso fondativo del 12 novembre 2007 "di servirlo per sempre e di non tradirlo mai".

Scusami la provocazione, ma c'è un abisso tra la storia tua, di tuo padre ed il funambolismo della Santanché e di molti personaggi in cerca di autore come Lei.

Con sincera stima

Francesco Martucci

Anonimo ha detto...

Caro Martucci,
vedi che io non provo nessuna soddisfazione ma tanta umiliazione davanti allo spettacolo offerto da personaggi,per i quali diventa del tutto superfluo citare le dichiarazioni a proposito di improponiblità del partito unico(vedi Alemanno nelle annuali riunioni di Orvieto)o di non scioglimento di AN(vedi Fini nel mese di dicembre 2007).
Tanta umiliazione,caro Martucci,per aver creduto come uno stupido che,almeno nel nostro mondo,la coerenza in politica potesse avere un qualche valore.
Per quanto riguarda la mia militanza ne La Destra,anch'io ho avuto alcune perplessità nell'aderirvi.Lo avrei potuto fare subito,perchè ero già schierato in D-Destra,ma ho aspettato i primi di aprile quando mi sono trovato davanti alla scelta infame dello scioglimento di AN.
Per il resto,caro Martucci,mi pare di avere già spiegato che io vado dove trovo casa per le mie idee e non seguo mai pedissequamente i personaggi che,in quel momento,le rappresentano.
In conclusione,devo dirti che io,il piede sulla porta dell'uscio,l'ho tenuto per quindici anni e,se non sono andato via prima,è stato per due motivi:primo perchè vedevo poca serietà nella eccessiva frammentazione dei partiti alla destra di AN;secondo perchè la presenza di persone come Gianni Alemanno in un partito che non si scioglieva,in quanto non ve ne era e non ve n'è il bisogno,e che manteneva il suo simbolo,mi garantiva dal rischio di morire democristiano o,peggio ancora,liberale e massone.
Sperando di essere stato esauriente,ti saluto cordialmente.
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

Chiedo scusa,perchè intendevo scrivere:"sull'uscio della porta" e non"sulla porta dell'uscio",come,purtroppo,mi sono fatto sfuggire.
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

Che ci stiamo a scrivere più su questi blog?Rischiamo di essere ridicoli,mentre il vostro presidente definisce vergognose le frasi antisemite scritte da Almirante a ventotto anni e si dimentica di aggiungere che lo stesso Almirante in oltre quaranta anni di democrazia ha più volte fatto ammenda di quanto scritto in gioventù.O non era lo stesso Fini, che fu beneficato da Almirante al punto di essere nominato segretario del FdG nonostante fosse impopolare tra i giovani e di essere mandato nel 1983 in Parlamento risolvendo il problema del pane e del companatico che ad altri è stato impedito di risolvere?
E perchè queste cose non le ha dette personalmente ad Almirante?
Temeva forse di essere preso a calci nel sedere come meritava e merita?
E Gianni Alemanno che ritiene di costituire la Commissione toponomastica di Roma con i quindicimila ebrei(su duemilioniottocentomila romani) per avere il consenso alla intitolazione di una via ad Almirante?
Personalmente,nel 2001 da vice sindaco di Veglie ho provveduto(inserendomi nella lista degli oltre duecento comuni che hanno fatto ugualmente) ad intitolare una via ad Almirante e non ho avuto l'opposizione di nessun ebreo.
Quanto tempo perso dietro a questa gente che ha sfruttato i nostri sacrifici ed il nostro sangue per costruirsi una posizione sociale!
Per fortuna me ne sono andato in tempo e per nessuna ragione al mondo mi pentirò mai della mia scelta!
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...

Caro CATAMO,

mi sembra che le cose stiano un po' diversamente.

Iniziamo dal Sindaco ALEMANNO.

Ieri ha evidenziato che le decisioni sulla toponomastica le assumerà la giunta e che NON le aveva affatto commissionato alla comunità ebraica di Roma.
Tanto è vero che questa sua fermezza è stata oggetto di dure contestazioni nell'assemblea, nei sit-in e nei cortei svolti ieri dai Collettivi studenteschi alla Sapienza di Roma, e, nello stesso tempo, di apprezzamento della vedova Almirante, di Baget Bozzo e di Andreotti (solo per citare i principali).
Poi, spero che non ti cruccerai se mi permetto di farti notare che Roma per abitanti, importanza e ricaduta sui media è circa cento volte più grande di Veglie e che c'è un abisso tra il dedicare una strada ad Almirante nel tuo meraviglioso paese (ricordo con golosità l'agriturismo de La Porcara) e farlo nella Capitale d'Italia.

Per quanto riguarda FINI, invece, è successo questo.

Ieri il deputato del PD Emanuele FIANO per guastare la presentazione in pompa magna (con Fini, Cossiga, Violante e Malgieri) dei 5 volumi coi discorsi completi di Almirante al Parlamento nelle prestigiose edizioni della Camera dei Deputati, ha letto quanto Almirante scriveva 70 anni fa' sulla Difesa della Razza al fine di tener viva una coscienza razzista per non fare "il gioco di meticci ed ebrei".
Sicché FINI gli ha replicato STORICIZZANDO le suddette espressioni incriminate di ALMIRANTE in perfetto stile almirantiano (quando gli contestavano in tv o sulla stampa di essere fascista):

"Credo che a Lei faccia piacere, onorevole Fiano, se dico che sono certamente vergognose le frasi che Lei ha letto e che esprimono un sentimento razzista che purtroppo in quell'epoca tragica albergava in tanti e troppi esponenti che in alcuni casi si allocavano a destra, in altri DENTRO ALTRE FORMAZIONI POLITICHE".(alludendo ai vari Taviani, Fanfani, Bocca, Eugenio Scalfari ecc. sbugiardati nei libri di Nino Tripodi e di Ciarrapico "Camerata dove sei?").
Insomma, non mi sembra affatto che abbia rinnegato il suo maestro.
Non ti far ingannare dai titoli ad effetto e dai ricami giornalistici.

Poi non c'è mai stato bisogno nel Msi di contestare quelle frasi ad Almirante perché lui per primo, sia nelle tribune politiche che in interviste televisive informali (tipo con Roberto Gervasio nel 1983), chiedeva scusa per la sua collaborazione ai periodici razzisti di quel tempo. Inoltre, Almirante ha sempre rivendicato di aver salvato la vita ai suoi amici ebrei di Torino che poi, caduto il Fascismo, gli ricambiarono il favore sottraendolo alla caccia dei partigiani.

Sull'argomento Ti suggerisco i commenti apparsi stamani su Il Secolo d'Italia e su Il Foglio che sono più aderenti ai fatti.



Infine, ne approfitto per sottolineare un'altra cosa positiva e non democristiana dei nostri rappresentanti nel Governo Berlusconi. L'intervento a schiena diritta di Alfredo Mantovano per rispondere alle interrogazioni parlamentari sugli scontri alla Sapienza. La sinistra si ostinava a ritenerle frutto di un agguato (e se sui banchi del governo ci fossero stati i democristiani puoi star certo che avrebbero sposato le ricostruzioni della sinistra) e Mantovano, invece, gli ha replicato a muso duro e con tanto di rigore documentativo che si era trattato di UNA RISSA.

Non sono piccoli dettagli, caro Catamo.

Il BUON GIORGIO si vede dal mattino, da come si comincia.

Con sempreverde stima cameratesca

Francesco Martucci

Graziano ha detto...

Io rautiano da sempre ho dovuto difenfdere con la nota che faccio seguire Giorgio Almirante, offeso sul forum di Portadimare.it da un giovanotto intelligente ma poco avvezzo alla conoscenza della storia appena trascorso.
Questo mentre i benificati di Almirante che sulla Azione Politica dello steso hanno costruito la loro effimera fortuna politica di Consiglieri comunali ( Nardò stesso, per esempio) tacevano in preda alla vigliaccheria che è sempe stata la loro padrona.
Almirante razzista nel 1942? Ma era in ottima compagnia.

Il fior fiore de soloni demecratici ed antifascisti del primo cinquantennio repubblicano hanno scheletri razzisti nei loro armadi.
Ad esempio Giuliano Vassalli, l'illustre giurista è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura, Ministro della Giustizia, Presidente della Corte Costituzionale ma nel 1939 partecipava a Vienna al Convegno di collaborazione giuridica italo-tedesca, il cui documento finale conteneva il solenne impegno "di difendere i valori della razza con l'assoluta e definitiva separazione degli elementi ebraici dalla comunità nazionale".
Ma il suo antisemitismo si "emendava" solo perchè si collocava sotto il mantello protettore della sinistra massimalista.
Così come accadeva a figura di ben minore caratura, tale Felice Chilanti che da estensore di saggi razzisti diventava vicedirettore dell'Unità (l'organo del durissimo ed intransigente PCI degli anni 50)e si potrebbero citare altri esempi come Giovanni Spadolini che su Italia e Civiltà del 15 febbraio 1944 (cioè sei anni dopo le leggi razziali), lamentava che il fascismo avesse perso "a poco a poco la sua agilità e il suo dinamismo rivoluzionario, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo".
Fanfani scriveva che era necessaria una politica razziale che sancisse la "separazione dei semiti dal gruppo demografico nazionale" poichè "per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri".
Moro non era da meno affermando che "la razza è l'elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l'individuazione del settore particolare dell'esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato".

Potrei continuare ma gli esempi mi sembrano sufficienti.
Almirante invece, non svoltò a sinistra, e pertanto mantiene intatto il suo potere corruttore della società italiana verso una deriva razzista che non c'è mai stata.
Capitato al quindicinale "La difesa della Razza", come segretario di redazione non come direttore od editore, solo perchè caporedattore del quotidiano "Tevere" che aveva lo stesso direttore, Telesio Interlandi, del quindicinale razzista, nel dopoguerra non scrive un solo rigo di ispirazione razzista e negli anni 60 definisce un grave errore il suo lavoro presso la rivista di Interlandi, ma non si converte al comunismo, solo passo che gli avrebbe potuto dare una verginità immacolata da errori. Se l'avesse fatto forse sarebbe stato uno statista su cui nessuno avanzerebbe un minimo sospetto di razzismo.
Nel dopoguerra, addirittura, Almirante, per la sua politica strettamente filoatlantica, si becca l'accusa di filosionista e di favoreggiatore di una rete di aiuto al nascente Stato d'Israele; per i cultori di certi studi non è, infatti, un mistero che molti addestratori dello TShahal, le forze armate israeliane, furono reduci di Salò, principalmente specialisti della X.ma Flottiglia MAS.
Il succo che si può ricavare da queste notizie che ho citato, tutti fatti storici accertati, è che Almirante è ancora ritenuto un razzista solo perchè non si assoggettò al lavacro rituale delle forze dell'arco Costituzionale che, solo, aveva il potere di togliere anche il peccato originale delle leggi razziali.
Almirante fu un uomo come tanti, con le sue luci e le sue ombre che ha diritto, come tutti, al rispetto di quanto ha fatto in buona fede anche sbagliando pesantemente ed emendando con un profondo pentimento. e lo sostengo anche se, all'interno del MSI, fui sempre suo aspro oppositore al contrario dell'odierno presidente della Camera che lo seguì sempre per averne cooptazioni ai massimi vertici del partito.
A nessuno degli uomini pubblici che ho citato all'inizio fu chiesta abiura dell'aver professato tesi razziste ed antisemite ed oggi sono celebrati come statisti di grande spessore.
Come sempre ancora due pesi e due misure.

Graziano De Tuglie

Anonimo ha detto...

Caro CATAMO,
Caro DE TUGLIE,

schiatto dall'invidia per i comunisti, per gli esponenti della sinistra e per tutti quelli che in qualunque modo e a qualunque titolo sono eredi del centralismo democratico del Partito Comunista Italiano.

Non è un'eredità positiva, ma al cospetto dello sport diffuso tra le nostre file di essere eccessivamente CRITICI verso i nostri "vicini e/o lontani", diventa una virtù invidiabile.

Osservateli bene come sono sempre solidali tra di loro quando appaiono all'esterno pur non rispamiandosi staffilate e sgambetti al loro interno.

Noi, invece, anche quando si tratta di un pelo nell'uovo siamo sempre pronti a polemizzare tra di noi senza riserve, fregandocene che possa trapelare pure all'esterno, anzi, se i media ci osservano, ci critichiamo di più e con maggiore lena.

Cosa voglio dire con questa premessa?

Che dovremmo meditare di più sulle tonnellate di diffamamzione, di odio e di livore che i militanti, i dirigenti ed i pennivendoli di centrosinistra buttano su ciascuno di noi del centrodestra (dalla sfumatura più moderata a quella più estremista) confidando sulla nostra stupida ed involontaria collaborazione alla loro opera giacché al nostro interno facciamo la gara a chi più prende le distanze gli uni dagli altri.

Con tutte le critiche possibili ed immaginabili che ho rivolto a FINI per le sue posizioni sulla Legge 40, con tutte le riserve su Almirante che espelle Tarchi nel 1981 o che spinge Ciarrapico a buttare Veneziani in mezzo alla strada nel 1987, come si può non amarli e difenderli all'inverosimile di fronte alle schifezze e alle speculazioni scritte contro di loro stamattina sui giornali?

Basta!
Basta con gli eccessivi distinguo, utili solo a chi ci perseguita (che non fa differenze se stiamo in AN, nel PDL o nella DESTRA o in altre formazioni di destra democratica) e che ci negano i più elementari diritti di espressione del pensiero e di agibiilità politica!

E' ora di ricompattarci per i diritti democratici nostri e di chiunque altro.

continuo dopo

Anonimo ha detto...

mi sono scordato di frimarmi.
Francesco Martucci

Graziano ha detto...

Caro Francesco non ho, con la mia nota, offeso nessuno come neanche Lorenzo ha fatto.
Siamo tra i pochi a mantenere retaggio del corpo solo che rappresentava tutti noi del Msi. Scattavamo sempre come un sol uomo a difesa di ciascuno dnoi. Questo ci impedisce di offendere chiunque sia stato parte di quel corpo. Perchè abbiano Onore, noi.
Certo che è immorale che chi si dichiarava almirantiano di ferro, arrivando a falsare i Congressi, taccia di fronte ad offese gratuite nei confronti di quel "Vecchio Segretario" (cito Anni di Porfido)che abbiamo sempre conbattuto apertamente e lealmente.
Certo vigliacco è colui che non riesce a difendere il Camerata morto dal solito verme di sinistra che ha sicuramente la trave nel suo occhio e vede anche le pagliuzze chew non ci sono in quelle del suo avversario.
Graziano De Tuglie

Anonimo ha detto...

Caro Graziano,
Caro LORENZO,

la fretta è una brutta belva.
Non mi sono espresso bene.
Non vi ho addebitato alcuna accusa nei confronti di chicchessia.

Ho solo provato a descrivere il clima nostro, di persone che per il gusto e la ricerca della verità polemizzano al loro interno fino al punto di spaccare un capello in quattro parti, dando risalto esterno anche alla più piccola sfumatura di diversa opinione, mentre i nostri avversari cercano di sembrare graniticamente compatti fino a negare le evidenti spaccature tra Teodem e radicali all'interno del PD.

E sottolineo che io sono il primo ad essere colpito dalla sindrome di spaccare il capello in quattro, pertanto non ho certo la faccia tosta di fare la morale agli altri.

Semplicemente mi sono accorto che questa nostra bella qualità antica (nelle discussioni ai congressi del Msi si arrivava a spaccarsi le seggiole in testa quando non c'era da spartirsi alcunché, se non le ragioni tra gentiliani ed evoliani) ha un brutto rovescio di medaglia:
ci rende più vulnerabili e fragili dinanzi alle infamie e alle provocazioni che ci rovescia addosso la canea rossa e le sue propaggini nei media e nella magistratura.

Sicché, a cominciare da me, ritengo inutile e dannoso sottolineare le nostre diversità presenti o passate o future quando il contesto degli attacchi rivoltici, invece, sollecita la nostra compattezza e la nostra concentrazione per fornire risposte adeguate, documentate, persuasive e non violente.

Sperando di essere stato più felice nell'esprimermi, Vi rinnovo i miei cordiali saluti

Francesco Martucci

Anonimo ha detto...

LE VIE DELLA POLITICA SONO FINITE?

Si resta di sasso nel leggere le dichiarazioni del Sottosegretario on. Alfredo Mantovano a proposito dell'intenzione del sindaco Alemanno di dedicare una strada di Roma ad Almirante, Berlinguer, Craxi e Fanfani.
Le sue parole riportate dal quotidiano "Italia Oggi" venerdì 30 maggio u.s. a pagina 6: "Sono contento che il sindaco di Roma sia Alemanno, MA LA TOPONOMASTICA e LA POLITICA DEVONO SEGUIRE STRADE DIVERSE (sic!)" tradiscono, forse, un atteggiamento rinunciatario che non fa onore a Mantovano, che ebbe il coraggio di dimettersi dalla carica di coordinatore regionale di AN pur di restare coerente con l'impegno astensionista ai referendum sulla fecondazione assistita, sebbene gli comportasse un costoso disaccordo con Fini!

Stupisce, pertanto, che Mantovano, ed altri dirigenti con Lui, seppure in modo più defilato, non si rendano conto come in ballo non ci siano solo delle strade, è ovvio, altrimenti non ci sarebbe questo sparar polemiche a tutto spiano da parte del centrosinistra!

Qui è in gioco l'armonia di una Nazione intera con la propria memoria completa, che non procede per salti o per simpatia, ma che sa guardare con laico distacco la propria realtà storica in tutte le sue sfaccettature, sapendo cogliere le luci e le ombre di ciascun contribuito personale e/o di gruppo che è riuscito ad andare al di là dei propri angusti limiti temporali.

Insomma, tributare onori alla cara memoria di Almirante mediante dei libri o l'intitolazione di una strada non è tanto, o soltanto, la necessità di una forza politica di non smarrire le proprie radici allorquando cresce in consensi ed in forma partito, ma è soprattutto il bisogno di una Comunità Nazionale di approdare prestissimo ad una memoria completa, serena e condivisa.

Ciascuno di noi faccia in questo la sua parte.

Salvatore De Martino

Anonimo ha detto...

Non ho letto l'intervista del sottosegretario Mantovano e,quindi,non posso giudicarla per evitare errori di valutazione.
Mi sembra di capire,però,da quello che scrive Salvatore De Martino che,nel 1995 a Fiuggi,vidi bene quando a qualche camerata più giovane feci capire che non era più questione di"Fascismo sì,fascismo no".Perchè si stava facendo qualcosa di ben più grave,in quanto si stava gettando nella discarica il Movimento Sociale Italiano con la sua storia ed i suoi uomini.
Non mi ero sbagliato!
Lorenzo Catamo

Anonimo ha detto...
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
Anonimo ha detto...

Chi ricorre all'anonimato è solo un vile senza palle e senza coraggio, degno compare di ANONIMI brigatisti, ANONIMI massoni e ANONIMI partigiani!

Quando ti passerà la cacarella che ti impedisce di firmarti proponi un appuntamento pubblico tramite questo forum a PDM e a MARTUCCI e così vedremo tutti chi è uomo e chi è verme strisciante.

Vergognati!
Anzi ritorna nella fogna che ti ha espurgato!

Salvatore De martino